CRITICA

Niva Lorenzini su Andrea Zanzotto – Dire il silenzio. Dai margini dell’impronunciabile

Nel corso della sua ricerca poetica Zanzotto ha sempre indagato le possibilità della parola e i suoi confini, ponendosi con la massima attenzione anche di fronte ai silenzi dei grandi poeti [Sereni, Montale, Ungaretti e altri]. Quelli che lui sentiva più prossimi, per consonanza profonda, nella sua indagine.

Silenzi, certo, tra loro diversi nelle modalità e nelle forme, eppure anche accomunati dal fondamento. Dalla necessità di un continuo “copro a corpo” con il linguaggio. Dinanzi all’insondabile, all’impronunciabile realtà dell’essere.

E Niva Lorenzini, con questa sua ricognizione esemplare, davvero ci offre l’essenza del percorso zanzottiano – l’indicibilità dell’essere – il cuore di una delle più affascinati poetiche della storia della letteratura.

da

Niva Lorenzini, Dire il silenzio: la poesia di Andrea Zanzotto (Carocci, 2014)

estratti dalla Introduzione

pp. 7-12

Il motivo del silenzio è uno dei grandi temi che attraversano l’intero sviluppo della poesia di Zanzotto e che trovano un ampio campo di applicazione anche in alcune tra le sue più acute pagine di critica letteraria. Viene subito alla mente la precoce, intensissima lettura da lui compiuta degli Strumenti umani di Sereni, uscita nel febbraio 1967 sul n. 204 di “Paragone” e ora contenuta in Scritti sulla letteratura. Aure e disincanti nel Novecento letterario: una lettura che si può davvero assumere come esemplare svelamento di un’interrogazione costante, continua, a volte sotterranea, che Zanzotto conduce tra sé e sé e che riguarda, nel profondo, la possibilità o impossibilità della parola, la sfida che ogni volta la conduce sino ai margini del non pronunciabile, sull’orlo, appunto, del silenzio [ … ].

Era il poeta ormai prossimo alla Beltà a stendere quelle righe così singolari, così spiazzanti, su cui occorrerebbe fare sosta. Silenzio << aletterario >>? Silenzio <<nero>> ? Silenzio come reticenza? Su cosa e perché? Solo chi sta conducendo un proprio corpo a corpo con la parola può esprimersi così. E vengono alla mente, a traino, altri silenzi indagati da Zanzotto nelle sue folgoranti pagine critiche: quello di Montale, innanzitutto, che i silenzi li praticava sino dall’apertura degli Ossi di seppia […]

Tra questi estremi, e cioè tra il mutismo della parola che tace per impotenza davanti all’insondabile della natura, ai suoi distanziati “silenzi”, e quello di una verbalizzazione ridotta a incerto frammento, “ghirigoro”, mai definitivo, mai compiuto, si muove l’indagine che ho cercato di sviluppare lungo la poesia di Zanzotto. […]

Quello che si viene delineando di raccolta in raccolta è un percorso dalle infinite sfaccettature che nessuna campionatura può certo esaurire nella sua complessità: al più si potrà suggerire il senso di un procedere coerente, ostinato, ricchissimo di sviluppi. Perché le affronta tutte, le possibili accezioni di silenzio, la poesia di Zanzotto: non solo il silenzio come <<mancamento>>, <<insufficienza>>, reticenza del dire, che già segnalava recensendo Sereni (ed era per lui una reticenza necessaria, quello scrivere per <<reperti>>, quel buttare all’aria << frammenti di puzzle>> per tentare faticosamente un <<riassestamento>>, ma anche il silenzio come traccia erosa, logos saltellante, abrasione.

Si passa così, lungo l’itinerario cui dedico i capitoli iniziali, dal silenzio come mutismo insondabile di una natura leopardianamente estranea alle vicende umane, chiusa, in Dietro il paesaggio, in un’assolutezza da cui viene espunta la storia segnata dalle atrocità dei conflitti mondiali, al progressivo sgretolarsi della parola nell’incupirsi del paesaggio sempre più devastato, in un ecosistema impazzito, sino al suo sciogliersi in frammenti, balbettii, affioramenti grafici dal tracciato precario, ai limiti della scomparsa, in una poesia che finisce << altastrangolata >>, o si dissemina nel silenzio del << non sapere>> ( e cioè dei modi – chiarisce Stefano Agosti – con cui il soggetto tenta di attirare <<entro la propria ragnatela di linguaggio>> non solo il silenzio della Natura, ma la sua <<estraneità>>, la sua <<allucinazione cromatica>>, il suo <<terrifìco>>. […]

*

estratti da pp. 14-21

dai Versi giovanili a Idioma

In uno scritto dal titolo tutto da decifrare (Poesia?), pubblicato in un fascicolo monografico della rivista “il Verri” dedicato, nel 1976, per l’appunto alla Poesia, anzi agli Equilibri della poesia, Andrea Zanzotto scriveva: << [ … ] ci si trova non dico a scrivere, ma a “tracciare”, a scalfire il foglio, più che con la piena coscienza di quello che si sta facendo, con la sensazione di non poter sfuggire a una necessità>>.

Scalfire il foglio? Come se la parola, dunque, stentasse a prendere forma compiuta, e però si venisse vincolati, sollecitati da una <<necessità>> a scovarla, provocarne l’esistenza. Una necessità così cogente, avvertiva Zanzotto, che non le si può sfuggire. E ne illustrava subito dopo le caratteristiche, quando attribuiva alla poesia una funzione tutt’altro che allineata con la tradizione di un lirismo consolatorio: per Zanzotto, semmai, la poesia poteva << segnare per lo meno uno stato di allarme, evidenziare una faglia che ci riguarda e che noi non vediamo>>, oppure <<esprimere un sottinteso di minaccia>> ( <<O forse – concedeva il poeta, con allusione ellittica di speranza?>> ).

Certo chi scrive poesia si confronta sempre con ciò che preme per divenire parola, articolazione linguistica, e insieme con ciò che precede quell’articolazione. La <<faglia>> , lo << stato di allarme>> ? Può essere che esso coincida – ed è parzialmente così, credo, nel caso di Zanzotto – con la forza archetipica presente nell’inconscio, quella forza che Corrado Bologna identificava, in un suo libro dal titolo suggestivo, Flatus vocis, con la volontà del suono di farsi presenza corporea prima ancora che la parola venga sillabata e prenda nome. Può insomma richiamarsi, la <<faglia>>, a quella <<potenzialità di significazione>> che nell’inconscio <<vibra quale indistinto flusso di vitalità, spinta confusa al voler dire, all’esprimere, all’esistere>>.

Sono argomentazioni che coinvolgono di sicuro Zanzotto mentre si trova impegnato a stendere quelle righe per il numero del “Verri”. Per lui la scrittura, se da una parte è sollecitata dalla pulsione verso la pronuncia, è insieme attratta verso il silenzio, l’indicibile, il luogo di ogni possibilità inespressa, che richiama alla scissione dell’origine ma anche al territorio dell ‘altrove e dell’inconscio, secondo suggestioni cui non resta certo estranea la lettura di Lacan, con le sue indagini sul tema del manque, e cioè dell’assenza analizzata in rapporto all’io, al significato, alla realtà circostante. Su quel numero del “Verri” Zanzotto era chiamato però ad affrontare a modo suo, e dunque in maniera sicuramente anomala, la questione del comunicare in poesia, un problema giustamente al centro di molti interventi ospitati in quello stesso fascicolo.

Per Zanzotto ci si poteva accostare a quella sfida non certo riducendo la complessità dell’argomento, secondo le modalità più divulgate e abusate, del tipo: a chi parla il poeta, di cosa parla, vuole raggiungere il lettore o depistarlo? Qui ci si muoveva, a suo avviso, su un terreno per l’appunto più articolato e accidentato, più segmentato e scosceso: per lui un <<libro di versi>> , prima ancora di rappresentare una <<comunicazione>> e prima di darsi come <<oggetto>>, si presentava come <<corpo tendenzialmente “vivens” >> , nato << attraverso inquietanti processi>> che potevano non risultare pienamente rivelati neppure all’autore che aveva collaborato in qualche modo alla sua stesura.

Capita infatti a chi scrive, precisava subito, e a chi scrive poesia in particolare, di posizionarsi sempre sull’orlo del silenzio: da intendersi in primo luogo in senso ampio, come difficoltà, per la poesia, a proporsi come <<comunicazione immediata>>, dal momento che il poeta fatica sempre – ammetteva – << ad aprirsi del tutto all’alterità>> , anche se essa preme ogni volta per entrare nel testo.

Ma poi, in senso più strettamente mirato, significava per lui rivelare la tendenza della parola a confrontarsi <<con l’emarginazione>>, a toccare il <<margine>>, il <<limite>> , sfiorando ogni volta l’ <<impossibilità>>, anzi le << impossibilità di esistere>> della poesia, che restano, secondo Zanzotto, <<tutte da dire>>, in un Novecento che le ha rese <<infinite>>.

Se è vero, infatti, che ogni poeta, in qualsiasi epoca, mentre si confronta con il linguaggio e con le possibilità della parola spingendosi sino ai confini del non linguistico, verso l’oltranza in cui i nomi precipitano <<dispersi, attoniti>>, fa sempre i conti con la mancanza e con l’afasia, tanto più questo capita nel secolo – il Novecento – segnato, nella prima metà, dalle guerre mondiali, con il frammentarsi tragico dell’esperienza (la interpreteranno al meglio fenomenologia ed esistenzialismo, tra un Husserl che ridiscute la percezione del soggetto che si frammenta nel tempo e nello spazio e un Heidegger che si interroga sull’ “essere” come mancanza e sulla conseguente precarietà dell’ “esser-ci” per chi si trovi gettato nell’esistenza e nella storia senza radici e senza fondamento).

Nella seconda metà sarà poi la crisi dei valori e delle ideologie ad accompagnare il trionfo dei monopoli imperialistici e della mercificazione, del consumismo coatto, che espongono non solo alla perdita della voce, ma progressivamente alla sua dispersione, tra “caducità” e “fraintendimento”. In tale contesto la parola della poesia affronta la nuova sfida del vuoto e dell’annichilimento, lei che del resto – avvertiva Zanzotto subito dopo – <<opera (da sempre?) anche per mezzo della morte e del silenzio>>. E cioè attraverso una traumatica dimensione della frattura tra visibile e invisibile, affermazione e negazione, che rende precario il comunicare e arresta la parola lacerata sul limite della separatezza, tra impossibilità e rinvio.

[…]

Lo si può verificare
scorrendo alcuni versi, che cito corsivando il termine “silenzio”:


Dagli esili fondi della sera
cresce in corolle il silenzio
e l’acqua è perfetta [ … ]


sotto i ponti e in confini
il silenzio muta e conforma
a sé l’oro dei climi in rovina, [ … ]


tra i dormienti ed i vivi
il silenzio posa su un fianco


là tra giochi vuoti e pericoli
al silenzio si appoggiano le clausole
della mia memoria infelice [ . . . ]


[ . . . ] torna ai campi
la sagra del silenzio


celeste dono del silenzio è il mondo.

Niva Lorenzini, Dire il silenzio: la poesia di Andrea Zanzotto (Carocci, 2014)

tree – foto di John_Nature_Photos su pixabay

Niva Lorenzini è professore ordinario all’università di Bologna dove insegna Letteratura italiana contemporanea e Poesia italiana del ‘900. E’ stata presidente del Corso di laurea DAMS nel triennio 2004-2007 e direttore del Dipartimento di Italianistica dal 2008 al 2011. Ha tenuto lezioni e conferenze presso numerose Università straniere. E’ nei comitati direttivi dell’Istituto Gramsci di Bologna e dell’Associazione degli Italianisti (ADI). Fa parte della redazione di numerose riviste, tra cui “il verri”.

da laletteraturaenoi.it

la biografia completa Qui: https://laletteraturaenoi.it/author/niva-lorenzini/

Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo 1921 – Conegliano 2011). La poesia di Z. s’inscrive nelle tracce e memorie del suo paese di nascita: “qui non resta che cingersi intorno il paesaggio”, contemplato in Filò. Laureato in lettere a Padova nel 1942, e a lungo insegnante di scuola media, raramente si allontana dal suo altopiano, dalle tracce del “petèl”, mentre la sua cultura, le traduzioni, la saggistica, di ampi orizzonti europei, rendono più vivida la sua “ignarità che brucia pur di estreme sapienze” (Ligonàs, 1998).

Biografia – da Enciclopedia Treccani online 

Per una lettura completa qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/andrea-zanzotto/

Leggi anche: Stefano Agosti – Una lunga complicità. Uno scritto su Andrea Zanzotto – il Cipresso Bianco

lavora in biblioteca. Terminati gli studi in Giurisprudenza e in Teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali d’oriente e d’occidente, ampliando, allo stesso tempo, la sua ricerca poetica. Nel corso degli ultimi anni suoi contributi, sulla poesia e la parola, sono stati pubblicati da Fara Editore e dalle Edizioni CFR. É stato condirettore della collana di scrittura, musica e immagine “La pupilla di Baudelaire” della casa editrice Le loup des steppes. In poesia ha pubblicato Legni (Ladolfi Editore, 2014 - Premio “Oreste Pelagatti” 2015), il libro d'arte Borgo San Giovanni (Fiori di Torchio, Seregn de la memoria, 2018). Al di qua di noi (Arcipelago itaca Edizioni, 2023) è la sua ultima raccolta.

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