Massimo Scaligero – Segreti dello spazio e del tempo. La transitoria visione del mondo
Un altro testo essenziale di Massimo Scaligero, da riprendere e meditare nel corso del tempo, a varie riprese. Poiché il Pensiero vivo qui campeggia. Non c’è dunque bisogno di aggiungere altro, se non il consueto richiamo alla sottintesa [imprescindibile] necessità della pratica interiore – la concentrazione e la meditazione – secondo le indicazioni date dallo stesso Scaligero.
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Da Segreti dello spazio e del tempo, di Massimo Scaligero (Tilopa, 1964)
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Chi può penetrare lo spazio, incontrare il fluire del tempo? Soltanto chi non s’illuda di liberarsi delle condizioni sensibili portandosi oltre uno spazio e un tempo ritenuti reali perché misurabili: la realtà del tempo e dello spazio essendo l’immisurabile. Che si attinge superando non determinate forme del misurare, bensì il misurare stesso, in quanto si sappia come e perché sorga: e che cosa voglia lo spirito col racchiudere nella misura la sostanza del suo eterno favolare. La cui verità soltanto giustifica il misurare: la transitoria visione di ciò che supernamente sono lo spazio e il tempo.
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pp. 7-9
1.
Il mondo è il mondo che appare, perché nell’apparire rimane ignoto. Preserva il suo silenzio, preserva la sua solitudine, con l’apparire. L’orgia dei fragori e dei tumulti del mondo è la barriera più sicura al segreto silenzio che è la veste della divinità del mondo. Tuttavia esso si nasconde, perché possa essere ritrovato. Si nasconde nel lasciar cogliere la sua veste spaziotemporale. La sua inafferrabilità è il suo farsi afferrare in termini di spazio e di tempo: che riguardano l’uomo, non il mondo. Nel lasciarsi assumere come appare, nel lasciarsi misurare e dialettizzare, il mondo di continuo ritorna nel suo segreto: come se l’astratto pensiero, la matematica e la fisica che lo interpretano, fossero di tale segreto la custodia che impedisce di penetrarlo. E’ il segreto del pensiero che pensa il mondo senza sapere di pensarlo: consacrando come vero del mondo ciò che il mondo non è, formando lo spazio e il tempo dal tessuto pensante con cui li pensa a lui esteriori e necessari: misurabili. La misura spazio-temporale è infatti quella che ogni volta cessa di valere per l’uomo che pensa, o sogna, o crea, o conosce il mistero della morte. Per lui la molteplicità diviene ciò che non è mai esistito come autonoma obiettività: ciò che non appare mai privo della interna continuità, e perciò non condizionata da misurazione: ogni misura essendovi contenuta e trascesa.
2.
Se il mondo non si presentasse nella veste della molteplicità, bensì uno ed essenziale, l’uomo non avrebbe bisogno di stabilire l’immediato rapporto tra ente ed ente, non sarebbe sollecitato a concepire connessioni di spazio e di tempo, perché in un unico punto avrebbe intero il mondo. Tale è l’aiuto del tempo e dello spazio: che l’uomo si accorga come nel concepirli già è sulla via di ritrovare il valore non-spaziale e non-temporale delle cose. Nel concepirli già li dissolve in idea, senza tuttavia saperlo: colloca le cose sensibili che ha innanzi a sé, in un àmbito ideale che non ha la forza di vedere come tale. Egli concepisce spazio e tempo non per giustificare la molteplicità, bensì per restituirla a sue sintesi profonde tessute dello spazio e del tempo che quella meramente riflette. In verità l’uomo che pensa, rappresentandosi il mondo nello spazio e nel tempo, già lo trae fuori di essi: infatti, tutto lo spazio che egli concepisce è nel suo pensiero, così come tutto il tempo che egli misura. Non ha bisogno di essere grande come lo spazio che concepisce, né di vivere tutto il tempo che evoca.
3.
Colui che pensa ha sempre il sentimento che la relazione vera tra gli enti fisici sia in altro grado che quello della mineralità in cui li incontra. Incontrati a questo livello, essi appaiono estranei l’uno all’altro, la loro singolarità essendo la loro reciproca opposizione. La relazione più profonda è soltanto presentita, non veduta, onde la relazione più immediata, quella veduta, tende a sostituirsi ad essa: la numerabilità. Soltanto l’incapacità a cogliere la relazione profonda degli enti esige il numerare come primo modo di superare la reciproca estraneità degli oggetti del mondo. E’ il modo esatto, come primo movimento verso la verità delle cose: rimanere nel quale è errore. La matematica e la fisica sono vere come mezzo per identificare nella sua negazione l’elemento vivente del mondo. Il mondo frantumato, molteplicizzato e rivestente la veste della frantumazione, ha nella matematica e nella fisica la sua immediata interpretazione. Ma, in quanto immediata, provvisoria. La numerazione è la temporanea forma di ricollegamento della molteplicità, non l’unità ritrovata. Quando la matematica e la fisica, vere sul loro piano e nella loro astratta funzione, vengono assunte come la verità, sono l’errore. La misurazione e la fenomenologia fisica di un oggetto non sono l’oggetto: anzi, ciò che l’oggetto nell’essenza non è. Anche quando l’arte del numerare si affina sino a divenire calcolo sublime, è sempre l’arte dei primitivi che dinanzi alle cose sanno soltanto contare e, vincolati alla interpretazione numerica del molteplice, non accedono alla sua realtà, ignorando le sintesi innumerali possibili al pensiero indipendente dai numeri. Numerare le cose, stabilire equivalenze, tradurre i processi fisici in termini matematici, significa muoversi nella eliminata vita delle cose e convertire in valori la loro morte: movimento del pensiero alienantesi della propria vita e costruente della propria morte l’esteriore relazione: logica, matematica, fisico-chimica. Proiettabile nella meccanicità.
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Massimo Scaligero, Segreti dello spazio e del tempo (Tilopa, 1964)
Massimo Scaligero, pseudonimo di Antonio Massimo Sgabelloni (Veroli, 17 settembre 1906 – Roma 26 gennaio 1980)
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