Pier Vincenzo Mengaldo su Sergio Corazzini. La vivacità del tragico
Nel seguente contributo su Corazzini, Mengaldo tiene sempre sullo sfondo il raffronto con Gozzano. Il critico procede evidenziando, quindi, la distinzione tra il crepuscolarismo romano del primo e il crepuscolarismo piemontese del secondo. Ma mentre questi viene collocato, sul piano stilistico, nel quadro del “classicismo”, Corazzini invece viene posto, per le sue propensioni e potenzialità, nell’ambito delle tendenze avanguardistiche.
La sua “inquieta vivacità”, infatti, porta il poeta romano sempre in avanti, per esempio, ad anticipare in alcuni suoi testi l’uso germinale del verso libero. Ma anche per altri rilevanti aspetti si distingue, per esempio discostandosi per il suo taglio tragico dagli altri poeti crepuscolari. Infatti, in lui, non v’è mai traccia di registro ironico. Anzi, la sua tensione sembra tutta orientata verso una religiosità d’impronta cattolica e segnatamente francescana.
Corazzini, quindi, di certo, ha aperto strade nuove per i poeti a venire, nonostante il suo scrivere fosse connotato da un evidente monotematismo [da un’autocommiserazione continua in attesa della fine], dovuto soprattutto alla sua vicenda esistenziale [morirà di tisi ad appena 21 anni]. Eppure questo giovanissimo poeta, proprio dall’“anticamera luminosa della [sua] morte” [Sergio Solmi] riuscirà nell’impresa di consegnare alla storia la sua “opera nuova”.
Da
Pier Vincenzo Mengaldo, da Poeti italiani del Novecento (Mondadori 1978)
estratti da pp. 85-87
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Il problema critico di Corazzini sta ancora nei termini in cui l’ha posto luminosamente Solmi attraverso un efficace raffronto con Gozzano: artefice tanto più consumato costui, ma anche più concluso e volto verso il passato (l’ultimo dei classici…), «tanto di lui più velleitario, embrionale e incompiuto» Corazzini, ma anche più aperto sperimentalmente e «tutto rivolto verso il futuro» (e Jacomuzzi: «Dopo Gozzano potrebbe anche esserci, per assurdo, il totale silenzio; dopo Corazzini attendiamo, per forza, qualche altra voce, pur non potendo ancora prevederla»).
Tesi che, se presa in assoluto, si presta a forti controindicazioni, tanto è vero che non a Corazzini ma a Gozzano si riprendono per certi loro aspetti poeti nuovi come Montale o Sereni, ma che resta letteralmente vera se dalla posterità non immediata retrocediamo a quella immediata, cioè le avanguardie, futurista e soprattutto vociana; in altre parole Corazzini può rientrare, sia pure potenzialmente, in un quadro «avanguardistico», Gozzano no.
In prima analisi Corazzini è definibile, quasi proverbialmente, attraverso il ricorrere insistente dei motivi dell’auto-commiserazione masochistica, del vagheggiamento di sé come bambino malato e impotente, dell’attesa rassegnata della morte («Io non so, Dio mio, che morire. / Amen»): indotti certo in primo luogo, psicologicamente, dalla condizione di infermo inguaribile, ma forse anche, sociologicamente, dallo status di borghese impoverito.
Ma ciò che più propriamente lo caratterizza sul piano storico è la contraddizione paradossale fra questa tematica estremamente limitata e monotona, che sembra richiedere pari monotonia di pronuncia, e l’inquieta vivacità dello sperimentalismo, sul piano formale (cui non è estraneo lo stesso uso del dialetto romanesco, praticato in alcuni sonetti).
E difatti, di fronte al pervicace «classicismo» stilistico di Gozzano, stanno le precoci incursioni corazziniane nel dominio del verso libero, fin dalla Tipografia abbandonata del 1903, e ancor più significativamente in quello della prosa lirica (qui anzi non solo con buon anticipo cronologico su futuristi e vociani, ma precedendo lo stesso D’Annunzio delle prime Faville), per giungere alla forma disossata e prosastica della celebre Desolazione.
Altri punti capitali di distinzione rispetto a Gozzano – e in genere del crepuscolarismo romano nei confronti di quello piemontese – sono per esempio: la presenza assai minore di reagenti ironici, cioè una adesione spesso più immediata e acritica al proprio dramma, e la frequente contaminazione con spunti di religiosità cattolica (anche nella fattispecie francescana allora rimessa a nuovo, fra l’altro, dal dannunzianesimo), che tuttavia non giungono mai all’utilizzazione blasfema di un Govoni o un Palazzeschi, temperamenti più estroversi e giocosi.
Come tutti i compagni di strada anche Corazzini parte dai tardo-simbolisti francesi e belgi, specie da Jammes, ma innestandovi subito l’attenzione alle recentissime Fiale govoniane, lette con immediato consenso (e sono interessanti anche certe contiguità col giovane Palazzeschi nei momenti di scrittura più «bianca» e di trasognamento quasi ilare: cfr. qui La finestra… e Sonata…).
Ciò che però caratterizza soprattutto Corazzini, da questo lato, è che il repertorio di oggetti e temi tipicamente crepuscolari che egli trapianta o istituisce (chiese abbandonate, ospedali, suore, organetti di Barberia, marionette e via dicendo) perde in lui ogni consistenza oggettiva e per così dire ogni folclorismo, per divenire spazio e scenario di una piccola e iterata sacra rappresentazione dell’anima: di qui la valenza simbolica che assumono i luoghi, come eminentemente Toblack degli omonimi sonetti, «anticamera luminosa della morte» (Solmi). Corazzini non sa davvero guardare fuori di sé, e questa introspezione estenuata e quasi cullata, se può portare ad esiti talora rugiadosi, non è mai posa, ma vale piuttosto come contrapposizione programmatica della «sincerità» alla «letteratura», fino alla confessione disarmata della Desolazione, e come assunzione in prima persona biografica di una tematica «decadente», che per questo continua a suonarci in lui così autentica.
Non è facile prevedere quale poteva diventare la via maestra di Corazzini; ma non sarà casuale che la sua carriera sia chiusa da una lirica come La morte di Tantalo, con accenti così scopertamente neosimbolisti e parnassiani (si vorrebbe quasi dire: rilkiani), secondo una vena che del resto scorreva già in prove precedenti, come i citati sonetti su Toblack.
E non si può fare a meno di ricordare che analoghi furono gli approdi cui giunsero, come per una consunzione interna della materia, gli altri due maggiori crepuscolari, Gozzano e Moretti, con le Farfalle e il Giardino dei frutti: anche in ciò il poeta romano sarebbe stato dunque un anticipatore. Più in generale va ricordato che il ritratto tipico di Corazzini, fondato sulla sua vena «piangevole», richiede sempre di essere arricchito e sfumato, se non certo negato, dalla considerazione degli aspetti anche tematicamente e psicologicamente centrifughi, quali appaiono in particolare nel Libro per la sera della domenica (oltre che nelle Poesie sparse, che non significa moltissimo): sembra lecito affermare che, pur entro una carriera così breve e compatta, il Libro è davvero, nel complesso, un’opera «nuova».
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Pier Vincenzo Mengaldo, da Poeti italiani del Novecento (Mondadori 1978)
Pier Vincenzo Mengaldo, filologo e critico letterario italiano (n. Milano 1936); prof. di storia della lingua italiana nelle università di Genova (1968-71), di Ferrara (1971-74) e quindi di Padova. Allievo di G. Folena, ha studiato con particolare acume storico-filologico M. M. Boiardo (ed. delle Opere volgari, 1962; La lingua del Boiardo lirico, 1963) e Dante (ed. critica del De vulgari eloquentia, 1968 e poi, con trad. a fronte e ampio commento, in Opere minori, 2° tomo, a cura sua e di altri, 1979; Linguistica e retorica di Dante, 1978).
dal Dizionario Biografico Treccani
la biografia completa Qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/elenco opere/Dizionario_Biografico
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