Giorgio Cusatelli su Attilio Bertolucci. Una poesia tra immobilità eterna e terrestrità
Quella di Bertolucci è una poesia molto distante dalle principali correnti del novecento lirico. La sua visione poetica si muove in uno spazio-tempo fortemente strutturato. Come in una dimensione avente un andamento ciclico. Ogni ritorno è dalla fine, un sovrapponimento tra “ultimo” e “origine”. Dove il tempo e lo spazio si avvicendano, in una continua alternanza. In una continua tensione tra interno ed esterno, tra futuro e memoria.
L'”officina” della sua poesia lavora così, e comunque sempre con una materia esterna mai davvero rappresentabile, e mediante un sentire interiore mai davvero dicibile. Al di qua di ogni apparente cantabilità. Poiché, come dice Giorgio Cusatelli, nella sua acutissima analisi, in Bertolucci “l’immobilità insensata dell’essere, [e] il silenzio cosmico, non suggeriscono [più] ormai lenitivi”.
Da
Poesia italiana del Novecento. A cura di Piero Gelli e Gina Lagorio (Garzanti 1980), Volume secondo. Attilio Bertolucci (a cura Giorgio Cusatelli), pp. 590-592
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[…] « Poesia » vuol dire, dunque, per Bertolucci […], né più né meno tutta la scrittura, tutto ciò che egli secerne e che sì dipana, come una ragnatela, a invadere il foglio. […] Così Bertolucci non è poeta di facile collocamento storiografico (lui ne aborrirebbe, del resto): le fonti sono troppe, e troppo interiorizzate, per servire a qualcosa; il ruolo è stato, volutamente, di una marginalità che è indizio sicuro, e non solo sul piano del costume, di una centralità destinata a crescere.
Si può solo constatare che confutare, negli anni quaranta e più nei cinquanta, gli esiti dell’ermetismo, equivalse a garantire alla poesia italiana una valida cittadinanza europea; e che i suoi risultati ultimi, proprio perché felicemente eludono i vari criteri « generazionali », rimandano alla libertà etica e al magistero stilistico come al perenne sintomo « privato » di una vocazione perentoria. Essenzialmente la poesia di Bertolucci è trascrizione di un movimento: nello spazio, da un interno a un esterno; nel tempo, da un prima a un dopo.
Ma anche del movimento opposto, quello del rientro, del ripristino della condizione originaria. Coincidendo la partenza con l’arrivo, l’inizio con la fine (l’ultimo verso della Capanna indiana dichiara « Qui siamo giunti dove volevamo »), il risultato, per forza di coraggioso paradosso, è una definitiva fissità, una immobilità « eterna » (nel vero e proprio senso religioso).
Metafore dell’interno, del chiuso, del cavo, — agli psicanalisti, forse, la lettura — sono l’inverno, la casa, l’amore « sonnifero »; dell’esterno, dell’aperto, dell’espanso, l’estate, il lavoro, la collettività sociale. Il prima è sempre, insieme, un dopo (Verso Casarola); l’alacrità e l’ubiquità della me-moria convertono di continuo il passato nel futuro, una critica nostalgia in una speranza incerta. In termini letterari vanno ascritte all’interno, al prima, le inclinazioni, dominanti nella maniera iniziale di Bertolucci, verso l’idillio e verso la fiaba: l’idillio, ambizione di possesso totale ed esclusivo dell’ambiente campestre e cittadino trascritto in chiave; la fiaba, incontrollato arbitrio infantile, agio del tepido alvo minacciato.
All’esterno, al dopo, si devono rapportare, invece, i programmi elegiaci che culminarono (1951) nella Capanna indiana, e che ebbero, in una certa misura, conseguenze negative, consolidando presso i critici l’immagine ufficiale di un Bertolucci cantore della sua dorata provincia (deliberatamente, perché troppo tipica, abbiamo esclusa da questa raccolta la Lettera da casa).
L’intervento poetico, il « fatto » della poesia, — Bertolucci dà sommo rilievo al momento grafico, materiale, concreto, perché è questo che giustifica il suo «lavoro » di artigiano: Longhi gli ha insegnato che l’arte è « officina » — si inseriscono, con fatica dolorosa, nella cerniera dei movimenti descritti, tra un esterno non rappresentabile e un interno non sopportabile, tra un prima irrecuperabile e un dopo invano agognato: sono la conquista di spazi esigui cui non rinunciare più, di segmenti impercettibili di durata: particole di luce strappate alle tenebre e alla morte.
Questa ossessione della caducità si capovolge, per estrema astuzia, nel suo contrario, nella predilezione cioè del fragile e tendenzialmente fortuito. Così il consolidamento stilistico primario avviene, in questo poeta di gravi e anche funebri sensi, intorno al modello meno prevedibile: la canzonetta. Membri e nuclei costitutivi di questo tessuto restano, anche quando esso ‘prolifererà verso più articolate latitudini, le intenzioni di una cantabilità spontanea: al riparo, s’intende, dalle pur verosimili suggestioni settecentesche, in grazia di una’ cultura e di una nevrosi che appartengono inconfondibilmente al nostro tempo.
L’arricchimento della maturità si definisce nient’altro che come, appunto, « maturazione » di una disposizione di canto posta di fronte, traumaticamente, alla pluralità e contraddittorietà degli eventi esistenziali. Il racconto, punto d’approdo dello sviluppo, si impone come accettazione di un compromesso che ingloba e trascende i termini dialettici: per rimanere cantabile questa poesia deve non esserlo più, o meglio deve continuare ad esserlo segretamente; l’abbandono sensuale e fanciullesco delle prime prove, l’in-dimenticata « felicità di Antognano », ineriscono, con peso fondamentale e insieme eluso, nel nuovo epos di una terrestrità provvisoria, dichiarazione e confutazione di ogni possibile sentimento panico (Verso Casarola è, probabil-mente, l’annuncio del « romanzo in versi » ancora negato ai lettori).
L’ultima poesia di Viaggio d’inverno, non a caso, è Solo. Se la confrontiamo con una pagina giovanile, Solitudine, non è per cogliere analogie, ma semmai, anzitutto, differenze: Solitudine pone precocemente la domanda fondamentale di Bertolucci (« Chi c’è di là? »), ma ne mitiga lo strazio in un cantilenare a mezza voce di cui sono figura i suoni del fiume che trascorre indifferente; Solo inscena una sorta di rito druidico, dove il poeta, « vocazione ritardata », deve improvvisarsi « prete », a testimoniare, per sé e per tutti gli altri, una morte di dio patita come insidia alla « beatitudine » naturale ma anche come « fede » irrisolvibile, piaga etica ignota a quella povera fauna d’Appennino che gli offre tanto muta testimonianza.
L’immobilità insensata dell’essere, il silenzio cosmico, non suggeriscono ormai lenitivi: la profanità del canto cede alla meditata preghiera di chi sa vano il conforto.
Giorgio Cusatelli
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Poesia italiana del Novecento. A cura di Piero Gelli e Gina Lagorio (Garzanti 1980), Volume secondo. Attilio Bertolucci (a cura Giorgio Cusatelli), pp. 590-592
Giorgio Cusatelli (Parma, 10 gennaio 1930 – 24 dicembre 2007), è stato un germanista, traduttore e curatore editoriale italiano.
La biografia completa Qui: https://www.liberweb.it/upload/cmp/Liera/bibliografia_cusatelli.pdf
Attilio Bertolucci (San Lazzaro, Parma, 1911 – Roma 2000). Allievo di R. Longhi, le sue opere poetiche (Sirio, 1929; Capanna indiana, 1951; Viaggio d’inverno, 1971) sono il risultato di una felice contaminazione tra eredità ermetica e capacità di tradurre ogni astratta eleganza in un discorso poetico naturale. Tra le sue opere principali occorre segnalare anche il romanzo in versi La camera da letto (I, 1984; II, 1988).
Biografia – dal Dizionario Biografico Treccani:
La biografia completa Qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/elenco-opere/Dizionario_Biografico
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