DIARI e LETTERE

Nelly Sachs – Lettere dalla notte. La cosmogonia del dolore

Con Le Lettere dalla notte la voce di Nelly Sachs entra nella sua fase di spoliazione più profonda, oltre il suo io contingente. Presente al di qua di sé stessa, in uno stato congiunto tra ascesi e poesia. Un via questa confermata e poi corroborata dalla lettura dello Zohar, l’immenso libro della mistica ebraica. Lei, poeta, di fronte al tu di Dio, sprofonda nella notte della storia, in una tensione lacerante tra memoria [dell’olocausto collettivo e personale] e desiderio di luce.

È la cosmogonia del dolore, dalla quale tutto nasce e procede. Così l’uomo e il mondo vengono letti come un grande libro. Come l’opera di un Dio calato, immerso, nell’alfabeto della vicenda cosmica. Un Dio quindi che “aprì le vene del linguaggio”. Ed è così che Sachs vede e conosce mediante il suo terzo occhio, sottolineando proprio nelle Lettere: “per la mistica il terzo occhio è quello dell’anima” […] [è] “come un seme il terzo occhio”. Quindi il punto davvero cruciale per la visione, per la metamorfosi propria e per quella del mondo.

Nelly Sachs, Lettere dalla notte (1950-1953), A cura di Anna Ruchat (Giuntina, 2015)

dalla presentazione di Anna Ruchat

estratti da pp. 5-12

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Nati nel momento della collisione tra il lutto personale [la morte della madre] e l’elaborazione della perdita delle vittime della Shoah, i testi delle Lettere dalla notte si configurano infatti come una sorta di meditazione sul passaggio; il diario di una metamorfosi, appunto, la registrazione di una dimensione interiore che muta e, per farlo, cerca di riconoscersi negli archetipi prescindendo il più possibile dall’io: «Avrai capito, ora, la preghiera che ti ho rivolto a più riprese, io voglio sparire dietro la mia opera, voglio rimanere anonima… voglio che mi si cancelli completamente – Una voce soltanto, un sospiro per chi vuole ascoltare». Ed è proprio attraverso lo Zohar e la mistica ebraica che Nelly Sachs consolida la sua idea di presenza poetica come “voce soltanto”, che prescinde dalla persona.

La dimensione fortemente intima di quella metamorfosi indurrà quindi la Sachs a non pubblicare in vita le Lettere dalla notte, uscite per la prima volta nelle opere complete fra le prose inedite, nel 2010.

L’insegnamento dello Zohar, che arriva proprio a ridosso della morte della madre, si traduce dunque, per la Sachs, nel rapporto che il poeta solitario stabilisce con un tu che è Dio, calato nell’alfabeto. La lettura dello Zohar (in particolare il capitolo della creazione introdotto e commentato da Gershom Scholem) aprirà a Nelly Sachs la strada di un immaginario poetico-religioso capace di tenere uniti vivi e morti dentro le «vene del linguaggio».

A partire dalla metà degli anni ’50, Nelly comincia ad alternare lunghi periodi di crisi a fasi di lavoro intenso. In quel contesto di grande precarietà anche economica nasce la consapevolezza che la follia può anche essere una via per vedere oltre, al di là della polvere. Proprio in quei primi mesi e anni dopo la morte della madre, Nelly Sachs affina il suo occhio di “veggente” e le Lettere dalla notte (1950-1953) ne sono una testimonianza preziosa, così come lo sono le lettere che scriverà qualche anno più tardi al poeta ed esule Paul Celan. La prima parte dell’epistolario tra Nelly Sachs e Paul Celan, quella che comprende le lettere tra il 1954 e il mese di giugno del 1960, offre lo spaccato di un dialogo che avviene sul filo del “meridiano tra Parigi e Stoccolma”. Dapprima esitante, Celan avverte comunque subito nella Sachs una sorta di “sorella nello spirito” e non esita, via via che la situazione si fa più gravosa per lui (si sente perseguitato e privo di appoggio), a cercare in lei quella fiducia che dentro se stesso non trova, riversando sulle deboli spalle dell’anziana amica (la Sachs ha quasi trent’anni più di lui) le sue paure peggiori.

E in effetti il misticismo immaginifico della Sachs, la sua sensibilità profondamente religiosa nonostante le origini laiche sembrano a tratti riuscire a colmare il vuoto, a placare la vertigine in Paul Celan. La stessa cosa accade alla Sachs: una scintilla di «luce» penetra nel cuore gelato della «principessa chiusa in una bara di ghiaccio», quando Celan le scrive.

Anche se fino al 1960 riuscirà a evitare prolungati ricoveri, la follia diventerà sempre più per Nelly Sachs uno “stato” riconosciuto, una modalità del “vedere” e comincerà via via ad essere anche un tema ricorrente, che sempre più s’intreccia, nei suoi versi, a quello della tragedia ebraica. Sola di fronte ai morti della Shoah, Nelly Sachs non è però una figura ripiegata su se stessa, parla «spinta da una fiamma potente, per chi non ha più voce, per chi è stato inghiottito nel silenzio della Shoah o nel silenzio attonito della vecchiaia, o in quello altrettanto atroce della follia», parla per chi sopravvive in una generazione di sopravvissuti.

«Il dolore serve a rendere la materia trasparente» scriverà a commento di una propria opera teatrale. E questa giustificazione metafisica del dolore, che trova fondamento nella sua visionarietà mistica, l’aiuterà a trovare una ragione non solo alla propria sofferenza ma anche a quella di tutti i sopravvissuti. Lo stesso sterminio degli ebrei acquista in questo modo la dignità di un sacrificio. Nasce così una vera e propria cosmogonia del dolore priva di coordinate temporali, quasi a giustificare quella lunghissima notte che è il tempo dei sopravvissuti.

Nelly Sachs, nata in una famiglia della borghesia ebraica assimilata, si accosta tardi alle radici ebraiche. In un primo tempo attraverso la leggenda chassidica e poi, già in Svezia, attraverso la mistica: nel modo istintivo che si riscontra in tutta la sua opera lirica, integra la tradizione come una vera e propria veggente, completamente estranea a ogni forma di intellettualismo.

Per lei “mistico” o “cabbalistico” significa “letterale”, ovvero legato alla parola e all’esperienza della scrittura, che attinge alla tradizione ebraica medievale e la sottrae alle categorie del reale per consegnarla, eterea e senza mediazioni, fondamentalmente sola, alle «vene del linguaggio».

Fin dal titolo, i testi delle Lettere dalla notte si prestano a un doppio piano di lettura, mai disgiunto. Quello concreto, realistico: la notte è quella delle allucinazioni della madre di Nelly Sachs o quella della morte della madre, o è il buio della Shoah. Ma la notte è anche quella mistica dello Zohar: «“Notte” o “Signore di tutta la terra” proviene dalla parte sinistra, da quelle Tenebre. E poiché era desiderio delle tenebre risolversi nella Destra, e per questo la loro forza venne indebolita, si sviluppò da esse questo [grado] della Notte».

La notte come stato imperfetto che «splende solo quando viene incluso nel Giorno» in quella continua tensione verso il ricongiungimento che caratterizza la mistica dello Zohar: un ponte «da qui fin là/ questo compito di precisione estrema/ la cui soluzione/ è affidata ai morenti».

[…]

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Lettere dalla notte

pp. 18-21

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I primi mesi

Che silenzio parlante tra noi, amata beata anima di mia madre. Che silenzio parlante. Tutto è stato spazzato via, salvo la nostra destinazione. La morte è la dissipatrice del superfluo. Respiro, sangue, carne, ossa, cervello, denti, occhi, viscere – corrosi – rimane il «silenzio parlante», la «nostalgia».

Morte, tu che paghi per affrancare la nostalgia. Morte, tu che partorisci le anime, tu, involucro della nostalgia placata. Placata nell’eternità. Nostalgia, quante costellazioni hanno voluto liberarsi dai tuoi veli di primogenita; quanti occhi di cerbiatto, quante violette per le mani degli amanti. Beata, amata, anima di mia madre, ora placata dopo tanti segni d’amore!

La tua benedizione sorridente sulla mia testa. La mia scendeva e scendeva, la tua saliva e saliva. Saliva nella nostalgia placata. Ora io faccio parte del seguito. Nient’altro. Di coloro che devono seguire attraversando il sale, immersi nell’acqua di prima della creazione, nell’acqua del lutto. Nessuno sa se le stelle marine, le meduse e i pesci e tutte le cose che soffrono nella cecità stiano ancora andando o siano già sulla via del ritorno.

Mi hai trascinato molto in profondità con la tua morte e poi mi hai rimesso in libertà, là dove il seminatore ha registrato ogni cosa da te compiuta nell’illimitato. Nelle notti, fuori dal letto, tutto il dolore che è in cammino si tiene per mano. Il verme appeso all’amo, il pesce al verme, la mano che tira il pesce, il tempo divenuto rigido nella gola – attraverso la finestra dell’invisibilità arriva già l’ultimo che uccide. Come un seme, il terzo occhio a volte nel sogno si apre e ci guarda – e allora noi sappiamo che la morte si tramuta in vita.

Il nostro silenzio parlante va soltanto da me a te perché l’umiltà vieta l’ascolto di ciò che viene dall’alto. Eppure in certi momenti sfiorati dalla grazia io so come nascerà il sorriso.

E imparo all’indietro. E le porte chiuse si aprono. Oh, la corrente d’aria che sfoglia i libri in cui ci sono gli errori: quest’ora è stata amata solo per metà, e quell’altra che si torce come un serpente nei tormenti del pentimento. Là dove sono finite le beatitudini, la dimenticanza deve forse fare da giudice? Dov’è finita la refurtiva della dimenticanza? E sgorga fuori in tante lacrime.

Versato da una ciotola già rotta hai amato il vino della vita nella tua mano – Anima di madre, isola e continuo «ritorno». Eterna cifra che custodisce i miei segreti. Il silenzio parlante. Tutte le mie parole sono solo cartelli e lapidi. Tu sola sai cosa s’è dissanguato là sotto. E la stella si rigira con le sue caverne dei ciechi che piangono e maturano. E uccello e pesce sono forse già più vicini e si capiscono ben al di là della morte e già con il corpo scrivono la nuova lingua.

Il nostro parlante sentiero del silenzio. Meravigliosa musica dell’armonia che chiede e che risponde, leggi delle scie siderali nel battito e mano nella mano in una stanza o anche liberamente chine sopra un libro o in cucina con una minestra.

E se anche la morte ha tolto porte e finestre dai cardini per lasciare un unico spazio immenso, come nel sonno, io sono comunque circondata, piccola come una mosca, che dal mattino rosa – porta la sua parte rosa di mattino e comincio la mia passeggiata mattutina venendo a te.

La stella è forse l’ospite severo che dice: Ora vai! La sabbia ha continuato a essere amata. L’odio non ci riguarda. Fa altre cose terribili. Tu hai continuato ad amare così a lungo, buonanima, che io cammino sola nell’«essenza», dove le foglie ormai sono cadute, ma i contorni segnati dall’angelo «della lettura» sono ancora difficili da riconoscere.

Qui e là una guardia notturna dove i combattenti del crepuscolo sopravvivono ancora al canto del gallo con i tendini slogati messi in direzione del risveglio. Chissà, forse il cerchio si chiuderà presto. Il torsolo della mela sta di nuovo alla radice, tra il fiore e la tempesta. Passato. La sera arrivano gli angeli. Trasloco. Metamorfosi. Buona notte.

C’è un solo insegnamento, dice il sogno. L’insegnamento del grano. Inizio e fine sono insegnamenti senza grano. Sapersi mettere a dormire, sprofondati nella terra del lutto, la terra dell’amore, della nostalgia, del pentimento, nei tormenti dell’essere sdraiato in modo diverso. Loro che si sono lasciati andare così profondamente nel sonno. Così profondamente come Abram, annegato tra tutti gli stregati dalla luna, nella notte caldea fu assorbito dai gusci magici dei pentagrammi, che si aprivano per liberarlo. Come dorme profondamente la pietra, sotto la coperta di muschio, tanto che, alla fine, si comporta col fuoco come col sangue.

La mia nostalgia salta come selvaggina nel cielo notturno, anima beneamata, il tempo del silenzio parlante è venuto. Lo sai! Quel difficile compito: trasformare la terra in amore. È per questo che l’uomo porta i paraocchi. Chino, sudato e l’orecchio una brocca per il canto delle allodole – all’orizzonte corvi, una civetta, l’avvoltoio sotto l’arcobaleno, il sole che tramonta, la luna che sorge – ferite sul sentiero – nel profumo del timo, nell’issopo che cresce là sul muro del paradiso, «brocche per le lacrime del ricordo» la tua ultima parola, anima trasfigurata, lo sai – e io sono sopraffatta.

Ieri sulla tua tomba dove riposa il tuo sacro lavoro. Ti sei portata via la luce e io non posso più dire niente. Il mio istante è ancora regolato sulle coccinelle che passeggiano sugli asteri rosa. Anche un pezzettino di tempo sulla strada.

Non la stanchezza nel sonno. Non abbandonarsi per stanchezza. Questo mollare della carne debole, questo tradimento della fedeltà. Questo stancarsi del proprio amore, questo ammalarsi della disponibilità a soccorrere, questo chiudere l’occhio dell’anima di fronte alla prima parola sofferente dell’eternità.

Non questo, non questo. Oh terra che viene concimata con i fiori dimenticati. Il pentimento entra nella tua vita fino alla morte. Fermento della metamorfosi? Chissà!

Il segreto attecchisce di nuovo tra coloro che saltano dentro dove c’è il segnale «abisso» e coloro che danzano. La tarma fa entrambe le cose. E nessuno sa di quale sangue è aumentato il prezzo. Immergersi o raccogliere i fiori. Per entrambi i gesti la sera sta terminando.

Vedevi gli archetipi nelle nuvole. Anche gli archetipi del nostro amore, quell’amore che stava nel corpo, nella stretta di mano che conferma la sera, che con le tende si dà tutte quelle arie, quasi fosse qualcosa di più di un’allegoria, con i suoi baci rosa giocava alla mamma e al bambino nella culla. Mamma e bambino

Amen!

Nelly Sachs, Lettere dalla notte (1950-1953), A cura di Anna Ruchat (Giuntina, 2015)

Titolo originale: Briefe aus der Nacht

foto di Pablo Figuereido su pixabay

Nelly Sachs (Berlino 1891 – Stoccolma 1970). Figlia di un facoltoso commerciante ebreo, esordì con poesie e racconti, in seguito ripudiati, di tendenza neoromantica. Nel 1940, con l’aiuto della scrittrice S. Lagerlöf (cui aveva dedicato le sue Legenden und Erzählungen, 1921), si rifugiò con la madre in Svezia, dove poi prese la cittadinanza. Il trauma delle persecuzioni e della fuga provocò una rottura netta con le precedenti esperienze e l’avvio di una produzione lirica e lirico-drammatica nuova, in cui si fondono il destino personale e quello del popolo di Israele, ossessivamente evocati tramite un linguaggio immaginifico che si fonda su tradizioni antiche personalmente recuperate. La prima raccolta delle liriche della nuova maniera, In den Wohnungen des Todes, è del 1947.

da Enciclopedia Treccani online

La biografia completa Qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/nelly-sachs/

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lavora in biblioteca. Terminati gli studi in Giurisprudenza e in Teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali d’oriente e d’occidente, ampliando, allo stesso tempo, la sua ricerca poetica. Nel corso degli ultimi anni suoi contributi, sulla poesia e la parola, sono stati pubblicati da Fara Editore e dalle Edizioni CFR. É stato condirettore della collana di scrittura, musica e immagine “La pupilla di Baudelaire” della casa editrice Le loup des steppes. In poesia ha pubblicato Legni (Ladolfi Editore, 2014 - Premio “Oreste Pelagatti” 2015), il libro d'arte Borgo San Giovanni (Fiori di Torchio, Seregn de la memoria, 2018). Al di qua di noi (Arcipelago itaca Edizioni, 2023) è la sua ultima raccolta.

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