DIARI e LETTERE

Simone Weil – l’Attesa di Dio. Una lettera a Joseph-Marie Perrin

Nella prima lettera, inviata nel gennaio del ’42 a padre Joseph-Marie Perrin, Simone Weil svela la propria visione, e quindi, la ragione profonda delle proprie scelte ideali ed esistenziali. Poiché tutto è “Volontà di Dio”. Va preso atto che la forza ignea con la quale Weil argomenta le sue prese di posizione, particolarmente decise, è la cifra dei suoi scritti.

Ed è per questo che la sobrietà e la precisione del suo pensiero pongono il lettore di fronte a una personalità decisamente anomala e, allo stesso tempo, geniale. Un’anima straordinariamente avanzata. Lo stile asciutto e nitido è conseguenza del suo pensiero sempre connesso all’esperienza esistenziale, segno della sua interazione col mondo reale. E il concetto di “fede implicita” è già ravvisabile qui. Weil, infatti, fonda la propria fede non sull’aderire a una dottrina, ma sul desiderio della verità. Questa è la sua vocazione personale – che lei sente coincidere con la volontà di Dio, operante in lei.

La verità va ricercata mediante esplorazione, con l’azzardo del pensare l’impensabile. E la pluridimensionalità delle sue analisi è necessaria a questo procedere. In più, il suo lavoro in fabbrica, come operaia, la pone di continuo a contatto con un’umanità particolarmente sofferente. Da qui la sua crescente sensibilità verso il dolore umano, verso il volto nascosto dell’amore. Si delinea in questo contesto la sua ricerca senza posa per il “sacro”, in tutte “le cose di quaggiù”. Accettando la vita e il proprio destino, il proprio nulla.

Imitando Dio nella sua kenosis [svuotamento]. In un crescente distacco fino al disancoraggio dal proprio io. Accettando il proprio limite creaturale, fino all’annientamento. Così come avviene anche in ogni autentica corrente spirituale, orientale e occidentale (pensiamo a Margherita Porete e a Meister Eckhart). Mantenedo la più assoluta attenzione, nell’attesa della verità, nel vuoto, l’inatteso incontro col Cristo.

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Da

Simone Weil, Attesa di Dio. A cura di Maria Concetta Sala (Adelphi, 2008)

estratti da pp. 31-34

LETTERA PRIMA

LA VOLONTÀ DI DIO

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19 gennaio 1942

Caro Padre,

decido di scriverle ancora una volta per chiudere – almeno fino a nuovo ordine – le nostre conversazioni intorno al mio caso. Sono stanca di parlarle di me, misero argomento; ma vi sono costretta dall’interesse che, grazie alla sua carità, lei nutre nei miei riguardi. Negli ultimi giorni mi sono interrogata sulla volontà di Dio: in che cosa consista e in quale maniera potremmo conformarci ad essa pienamente. Le dirò quel che ne penso.

Occorre distinguere tre ambiti.

Il primo concerne ciò che non dipende in alcun modo da noi, vale a dire tutto ciò che è appena avvenuto nell’intero universo, così come tutto ciò che sta avvenendo o è destinato ad avvenire in futuro al di fuori della nostra portata. In questo ambito qualsiasi evento è, senza eccezioni, volontà di Dio: bisogna quindi amare assolutamente tutto, nell’insieme e in ogni dettaglio, compreso il male sotto qualsiasi forma, e in particolare i peccati commessi, posto che siano trascorsi (mentre bisogna odiarli se la loro radice persiste), le proprie sofferenze passate, presenti e future, e – di gran lunga la cosa più difficile – le sofferenze altrui, posto che non si sia chiamati ad alleviarle. In altre parole, bisogna sentire la realtà e la presenza di Dio attraverso tutte le cose esteriori senza eccezioni, con la stessa chiarezza con cui la mano avverte la consistenza della carta attraverso il portapenne e la penna.

Il secondo ambito è quello soggetto al dominio della volontà. Esso comprende le cose puramente naturali, prossime, che ci si può facilmente rappresentare mediante l’intelligenza e l’immaginazione, fra le quali possiamo scegliere, predisporre e coordinare dall’esterno determinati mezzi in vista di scopi determinati e limitati. In questo ambito bisogna eseguire senza cedimenti né indugi tutto ciò che appare manifestamente come un dovere. In assenza di doveri evidenti, bisogna talvolta osservare regole scelte più o meno arbitrariamente ma fisse, tal’altra seguire l’inclinazione, ma in misura limitata. Infatti una delle forme più pericolose di peccato, se non la più pericolosa, consiste nel collocare qualcosa di illimitato in unambito essenzialmente finito.

Il terzo ambito è quello delle cose che, pur non sottoposte al dominio della volontà né relative ai doveri naturali, non sono tuttavia completamente indipendenti da noi. In questo ambito subiamo una costrizione da parte di Dio, a patto che meritiamo di subirla e nella misura esatta in cui lo meritiamo. Dio ricompensa l’anima che pensa a lui con attenzione e amore, e la ricompensa esercitando su di lei una costrizione rigorosamente, matematicamente proporzionale a quell’attenzione e a quell’amore. Bisogna abbandonarsi a tale spinta, correre fino al punto preciso cui essa conduce, e non fare un solo passo di più, neppure in direzione del bene. Nello stesso tempo bisogna continuare a pensare a Dio con amore e attenzione sempre maggiori, in modo da ottenere di essere spinti sempre di più, di essere oggetto di una costrizione che s’impadronisca di una parte sempre crescente dell’anima. Allorché la costrizione si è impadronita dell’intera anima, si è nello stato di perfezione. Ma a qualsiasi grado ci si trovi, non bisogna fare niente di più di quello cui si è irresistibilmente spinti, neppure in vista del bene.

Mi sono altresì interrogata circa la natura dei sacramenti, e anche a questo riguardo le dirò che cosa penso. I sacramenti hanno un valore specifico che costituisce un mistero, in quanto implicano una particolare specie di contatto con Dio, contatto misterioso, ma reale. […]

Quanto a me, penso di essere al di sotto di quel livello. Ecco perché l’altro giorno le ho detto che mi reputo indegna dei sacramenti. Questo pensiero non deriva da un eccesso di scrupolo, come lei ha ritenuto. Si basa da una parte sulla consapevolezza di colpe ben definite nell’ordine dell’azione e dei rapporti con gli esseri umani, colpe gravi e persino vergognose, che sicuramente anche lei giudicherebbe tali, e per di più frequenti; dall’altra parte, e in misura ancora maggiore, su un sentimento di generale insufficienza. Non mi esprimo così per umiltà. Giacché se possedessi la virtù dell’umiltà, forse la più bella fra le virtù, non sarei in questo miserevole stato di insufficienza.

Per concludere con ciò che mi concerne, aggiungo che la specie d’inibizione che mi trattiene fuori della Chiesa è dovuta sia allo stato d’imperfezione in cui mi trovo, sia al fatto che la mia vocazione e la volontà di Dio vi si oppongono. Riguardo al primo aspetto, non posso rimediare direttamente all’inibizione, ma solo indirettamente, diventando meno imperfetta con il soccorso della grazia. A tal fine bisogna soltanto, da una parte, sforzarsi di evitare le colpe nell’ambito delle cose naturali, dall’altra rivolgere un’attenzione e un amore sempre più grandi al pensiero di Dio. Se la volontà di Dio è che io entri nella Chiesa, egli me la imporrà nel momento preciso in cui meriterò questa imposizione. Riguardo al secondo aspetto, se la volontà di Dio è che io non entri nella Chiesa, come potrei entrarvi? So bene, e d’altra parte lei me lo ha ripetuto spesso, che il battesimo è la via comune alla salvezza – almeno nei paesi cristiani – e che non vi è alcun motivo perché io debba avere una via eccezionale. È evidente. Ma nel caso in cui, di fatto, a me non fosse dato di passare per quella via, cosa potrei farci? Se fosse possibile essere destinati alla dannazione obbedendo a Dio, e alla salvezza disobbedendogli, sceglierei comunque l’obbedienza. […]

Avverto il bisogno essenziale, e credo di poter dire la vocazione, di passare fra gli uomini e i diversi ambienti umani fondendomi con essi, assumendone lo stesso colore, almeno nella misura in cui la coscienza non vi si opponesse, dissolvendomi fra loro, affinché si mostrino quali sono, senza dissimularsi ai miei occhi. Desidero conoscerli per poterli amare quali sono. Perché se non li amo quali sono non sono loro che amo, e il mio amore non è vero. Non parlo di aiutarli, giacché di questo, purtroppo, sono ancora totalmente incapace. Penso che non entrerei mai in un ordine religioso, perché non voglio separarmi con un abito dai comuni mortali. Vi sono esseri umani per i quali tale separazione non costituisce un grave inconveniente, poiché la naturale purezza della loro anima li separa già dai comuni mortali. Io invece, come credo di averle detto, porto in me stessa il germe di tutti i crimini o quasi.

Me ne sono resa conto in particolare durante un viaggio, in circostanze di cui le ho parlato. I crimini mi facevano orrore, ma non mi sorprendevano; ne avvertivo in me stessa la possibilità; anzi, proprio perché ne sentivo in me la possibilità mi facevano orrore. Una simile disposizione naturale è pericolosa e molto penosa, ma al pari di ogni altra può servire al bene se, con il soccorso della grazia, sappiamo farne l’uso appropriato. Essa implica la vocazione a rimanere in qualche modo anonimi, capaci di amalgamarsi in qualsiasi momento con la pasta della comune umanità. […]

Può darsi che una parte dei pensieri fin qui esposti sia illusoria e cattiva. Ma in un certo senso poco importa. Non voglio più indagare; dopo tante riflessioni, sono pervenuta a una conclusione: la pura e semplice risoluzione di non pensare più in alcun modo alla questione del mio eventuale ingresso nella Chiesa. […]

Può darsi che la mia vita volgerà al termine senza che io abbia mai sentito tale impulso. Ma una cosa è assolutamente certa: se un giorno accadrà che io ami Dio abbastanza da meritare la grazia del battesimo, in quello stesso giorno la riceverò infallibilmente nella forma che Dio vorrà, o con un vero e proprio battesimo o in qualunque altra maniera. Allora perché dovrei preoccuparmene? Non è compito mio pensare a me stessa. Il mio compito è pensare a Dio. Spetta a Dio pensare a me. Questa lettera è lunghissima. Ancora una volta le ho sottratto molto più tempo del dovuto. Voglia perdonarmi. A titolo di giustificazione posso dire che costituisce, almeno provvisoriamente, una conclusione.

La prego di credere alla mia più viva riconoscenza.

Simone Weil

Simone Weil, Attesa di Dio. A cura di Maria Concetta Sala (Adelphi, 2008)

Simone Weil, scrittrice e pensatrice francese, nata a Parigi il 3 febbraio 1909, morta a Ashford (Inghilterra) il 23 agosto 1943. Di alta statura morale, fu pensatrice profonda e intensa tanto da dar vita nella sua breve esistenza a un originale connubio di esperienze di riflessione filosofica e politica e di azione solidaristica tra le più interessanti del 20° secolo.

da Enciclopedia Treccani online

la biografia completa Qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/simone-weil/

lavora in biblioteca. Terminati gli studi in Giurisprudenza e in Teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali d’oriente e d’occidente, ampliando, allo stesso tempo, la sua ricerca poetica. Nel corso degli ultimi anni suoi contributi, sulla poesia e la parola, sono stati pubblicati da Fara Editore e dalle Edizioni CFR. É stato condirettore della collana di scrittura, musica e immagine “La pupilla di Baudelaire” della casa editrice Le loup des steppes. In poesia ha pubblicato Legni (Ladolfi Editore, 2014 - Premio “Oreste Pelagatti” 2015), il libro d'arte Borgo San Giovanni (Fiori di Torchio, Seregn de la memoria, 2018). Al di qua di noi (Arcipelago itaca Edizioni, 2023) è la sua ultima raccolta.

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