Lorenzo Mondo su Cesare Pavese – Un poeta dalla prosa all’estatico
Lorenzo Mondo è stato un critico letterario particolarmente rigoroso. Davvero rilevanti i suoi studi su Cesare Pavese. Con le sue ricerche, infatti, ha ricomposto la biografia dello scrittore piemontese, ponendola sotto una luce diversa, affrancandola da ogni traccia ideologica e da ogni ricostruzione distorta.
Di Pavese ha posto al centro il suo vissuto, profondamente segnato dal dolore affettivo ed esistenziale. La sua lacerazione politica ed ideale, dovuta alla sua avversione al fascismo. Ma a dominare su tutto sarà sempre la sua consacrazione piena alla letteratura.
Ed è proprio su questo duplice piano, biografico ed artistico, che Mondo delinea, quindi, il ritratto di uno scrittore complesso e tormentato, sempre come in equilibrio su un precipizio, sospinto da una ricerca ossessiva per la verità. In un procedere che si fa sempre più affannoso, verso una meta ogni giorno più sfuggente.
E così in questo contesto di estrema fragilità anche la sua poesia si fa sempre più contratta. “Il lungo verso prosastico – scrive Mondo – si spezza per assumere il tono estatico e litaniante di una continua identificazione, di una incessante preghiera”. E se dapprima era sembrato possibile, mediante la scrittura, un riscatto – alla fine tutto verrà sopraffatto in fondo alla sua notte.
da
Poesia italiana del Novecento. A cura di Piero Gelli e Gina Lagorio (Garzanti 1980), Volume secondo. Cesare Pavese (a cura di Lorenzo Mondo)
pp. 553-555
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Cesare Pavese nasce poeta con la raccolta di Lavorare stanca (1936). Subito colpisce la sua posizione eccentrica in un panorama segnato dalla elusività e ineffabilità del simbolismo, da una ricerca che batte sull’intensità metaforica e sulla purezza verbale. Pavese sceglie invece la strada di una poesia semplice e oggettiva che nomina le persone e le cose appartenenti al quotidiano, esalta le ruvidezze dialettali, si concede a lunghe e agiate cadenze discorsive: le lasse di tredici sillabe de / mari del Sud.
I punti di riferimento Pavese li trova nella sua stessa regione, nell’esperienza crepuscolare e segnatamente gozzaniana; ma questa propensione casalinga ai versi lunghi e quasi prosastici è rinforzata in lui dalla conoscenza della letteratura americana e in particolare di Whitman (al quale aveva dedicato la sua tesi di laurea): di lui potevano sedurlo il piglio realistico, la libertà lessicale, il discorso paratattico, la sentenziosità predicatoria fatta apposta per incontrarsi con certo moralismo pedemontano. Whitman e i whitmanmiani d’Italia, da Thovez, magari, fino al vociano Jahier.
Il taglio stilistico esprimeva le esigenze di comunicazione, esistenziali e in minor misura ideologiche, di uno scrittore che pativa lo sradicamento dalla campagna e respirava, nelle frequentazioni e amicizie, nell’aspirazione a un nuovo radicamento, popolare e operaio, l’insofferenza per la dittatura. La poesia di Pavese è solcata da appariscenti dicotomie, che sono anche continue oscillazioni. Il contrasto tra città e campagna (alla fine si tratterà di storia e mito) e la ricerca di una loro possibile integrazione là dove si confondono prati e suburbio. L’esaltazione per i mestieranti più umili, con una irruducibile, contraddittoria propensione per quelli più lunatici e pittoreschi.
La solitudine come tara o virtù, ora esaltata quale segno di preziosa alterità, ora esorcizzata nella solidarietà con i « compagni », nell’amore di una donna, che si evoca, con accesa sensualità, con trepida malinconia. Ed ecco ancora l’infanzia contrapposta alla maturità, una infanzia avventurosa e vagabonda presagita in connessione sempre più stretta e viva con la campagna, con una natura che diventerà poi alba del mondo. Perché in una decina di anni, tra la stesura delle prime e delle ultime poesie di Lavorare stanca, qualcosa di importante è avvenuto.
L’ideale di una « poesia-racconto » si è logorato, rivela il suo scacco nella mimesi, nel cedimenti naturalistico-descrittivi. Sempre più affannosamente Pavese va rileggendo la sua work in progress per verificare se non affiori in essa, nonostante tutto, qualche miracolosa virtù dell’immaginazione creativa, la forza della metafora, la realtà del simbolo. Certo l’io, già duramente mortificato, si afferma oggi con autorità.
Se le prime poesie volevano essere narrative e oggettive, le ultime tendono a essere liriche e soggettive. Anche i materiali linguistici si fanno più preziosi e sfumati. Dai Mari del Sud e Antenati si arriva a Estate e Notturno dove il verso stesso, apparentemente immutato, rivela la necessità di una più serrata scansione. Siamo ormai alla confessione autobiografica, vanamente occultata nella terza persona e nel monologo interiore; siamo al rapimento davanti a un mistero naturale, all’immedesimazione panica, risolta con cadenze ripetitive di impronte epico-sacrale.
Pavese teme talvolta di essere approdato al tipo di poesia che più detestava: per difendersene non può che rinunciare a fare versi, che dedicarsi interamente alla narrativa. E della narrativa pavesiana Lavorare stanca anticipa il movimento, nel suo contrastato passaggio dalla realtà storica a quella meta-storica, dal mondo della ragione a quello del mito, dalla libertà al destino. Il silenzio che intercorre tra Lavorare stanca e Verrà la morte e avrà i tuoi occhi (uscita postuma nel 1951, ma la sezione La terra e la morte era già apparsa su rivista nel 1947) libera Pavese dalle residue preoccupazioni di poetica.
Qui, sotto l’urgenza di una stremante passione, si fa ancora un passo avanti nel superamento di Lavorare stanca. È una continua variazione sul tema della donna, innalzata a termine di paragone e di scambio con le voci, i sapori, i colori della terra e del mare.
Il lungo verso prosastico si spezza per assumere il tono estatico e litaniante di una continua identificazione, di una incessante preghiera. Dominano le cadenze musicali, le declinazioni alcyonie, che travolgono la pur resistente diffidenza per le parole arcane, la fedeltà ai dati di fisica concretezza. Si conclude così, nell’alveo comune del decadentismo, il gesto orgoglioso di un poeta che ha voluto ripartire da zero, provarsi con i contemporanei percorrendo un cammino solitario.
Lasciando ai posteri, al di là dell’esperienza ermetica, la suggestione di una poesia che, senza rinunciare a se stessa, acquisti l’affabilità e la ricchezza inesausta della prosa, la sua prodigiosa capacità di ibridazione, di metamorfosi.
Lorenzo Mondo
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Poesia italiana del Novecento. A cura di Piero Gelli e Gina Lagorio (Garzanti 1980), Volume secondo. Cesare Pavese (a cura di Lorenzo Mondo): pp. 553-555
Lorenzo Mondo, (Torino, 6 febbraio 1931 – Torino, 19 aprile 2022) è stato un critico letterario, scrittore e giornalista italiano. È stato a lungo responsabile culturale de “La Stampa”, di cui è diventato poi vice direttore. Come critico ha pubblicato «Natura e storia in Guido Gozzano» (1969), «Interventi sulla narrativa italiana contemporanea, 1973-76» (1977) e «Letture negli anni» (1991). Ha curato una antologia di «Viaggiatori dell’Ottocento e Novecento» (2002). Si è occupato specialmente di Pavese, a partire dalla monografia «Cesare Pavese» (1961), curando con Italo Calvino l’edizione del suo epistolario, «Lettere» 1924-1950 (1966) e scrivendo «Quell’antico ragazzo. Vita di Cesare Pavese» (2006).
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