CRITICA

Antonio Prete – la poesia del vivente

Leopardi con noi. Un’antropologia poetica

L’incipit di questo lavoro di Antonio Prete ci introduce nel pensiero leopardiano, come in un moto circolare. Incontrando tra opposti la forza di una presenza, tra l’inattingibile e il terrestre. Leggerezza e cosmo, insieme.

Da La poesia del vivente (Bollati Boringhieri 2019) pp. 12-13

«Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella»: è un frammento dello Zibaldone datato 1° ottobre 1820. La frase, che può sembrare una scaglia fantasiosa e stralunata nella fitta trama di un pensiero filosofico e filologico, può fare da epigrafe a una riflessione sull’antropologia poetica di Leopardi. Perché espone, nell’improvviso di un’immagine, elementi propri del procedimento conoscitivo leopardiano: la leggerezza, ad esempio, con l’implicito senso di elevazione, cioè di sguardo rivolto dall’alto verso il linguaggio del mondo e delle cose, così come prenderà forma nell’operetta morale Elogio degli uccelli; la presenza cosmografica («una stella») come principio che sostiene persino ciò che è più familiare («una casa»); infine il legame («con funi») tra quel che è inattingibile, inappartenente, e quel che è terrestre e quotidiano, insomma il legame tra lontananza e prossimità, tra oltretempo stellare e condizione umana.

E subito, in analogia, altre configurazioni si affacciano dietro questo appunto fantastico, e vanno a definire la terra del pensare leopardiano. Anzitutto lo sguardo sull’esistenza individuale – sulla singolarità corporea, sensibile, immaginosa – mai disgiunto dall’attenzione alla phýsis. A una natura, cioè, che è vita, e per questo tutto muove e comprende e agita e trasforma. Il respiro della finitudine, del suo chiuso cerchio, messo sempre a confronto con un desiderio d’infinito che è costitutivo, biologico, e tuttavia consapevole del suo scacco. E ancora, il tempo, irreversibile per sua natura, sempre già stato, il tempo che mai non ritorna, osservato nel caldo specchio della lingua poetica, dove, sebbene in forma di parvenza trasognata e fuggitiva, quel tempo concluso e fatto cenere prende un nuovo ritmo, sicché quel che da sempre è perduto ritrova un suo provvisorio palpito, e nel vuoto della mancanza risuona la musica del verso. Inoltre, una davvero fisica passione della felicità, nel senso del patire la contraddizione tra il desiderio della felicità e il sapere certo della infelicità. Infine, la condizione dolorosa, lo stato di souffrance, proprio di ogni cosa vivente, osservato sullo sfondo costante di una cosmologia abissale, suprema, imperturbata.

Questa premessa, o meglio questo preliminare compendio, è l’arco – di teoresi e di passione – lungo il quale si dispiega l’antropologia poetica di Leopardi. La quale consiste in un’assidua dislocazione del punto d’osservazione: dal soggetto alla natura, dal sentimento del singolo al ritmo cosmico, dalle forme visibili e dominanti della civiltà a un’anteriorità luminosa nella quale la favola è custodia del vivente, il mito è riserva di immagini, l’infanzia del mondo è specchio, o paragone, di quell’incantamento e di quell’animazione delle cose che appartengono all’infanzia di ciascuno.

Nello Zibaldone questa mobilità dello sguardo, questo riverbero su di sé dello sguardo dell’altro, questa eccentricità che privilegia l’estremo, il lontano, l’anteriore, è metodo di indagine e di confronto. E per questo la scrittura non può che affidarsi ai modi del preludio, o dell’essai – forme che Leopardi riconoscerà come proprie –, insomma affidarsi a un movimento del pensiero sempre interrogativo, comparativo, aperto, sempre disposto a ritornare su di sé, a tentare nuovi approfondimenti, nuove domande. Del resto nello «scoprire i rapporti delle cose, anche i menomi, e più lontani, anche delle cose che paiono le meno analoghe» consiste, per Leopardi, la facoltà del filosofo. Che coincide, per questo aspetto, con quella del poeta (Zib., 1650, 7 settembre 1821).

Antonio Prete, La poesia del vivente. Leopardi con noi (Bollati Boringhieri 2019)

foto di Evgeni Tcherkasski su Pixabay

Antonio Prete ha insegnato Letterature comparate all’Università di Siena e, da ultimo, alla Scuola Superiore Galileiana di Padova. Ha tenuto corsi e seminari presso istituzioni e atenei di altri Paesi, tra cui la Harvard University, il Collège de France e l’Università di Salamanca. È saggista, narratore, poeta e traduttore. Tra i saggi: Il pensiero poetante. Saggio su Leopardi (1980), Nostalgia. Storia di un sentimento (1992, n. ed. ampliata 2018), Il deserto e il fiore. Leggendo Leopardi (2004), I fiori di Baudelaire. L’infinito nelle strade (2007) e Meditazioni sul poetico (2013). Le prose narrative: L’imperfezione della luna (2000), Trenta gradi all’ombra (2004) e L’ordine animale delle cose (2008). Le ultime raccolte poetiche: Menhir (2007), Se la pietra fiorisce (2012) e Tutto è sempre ora (2019). Traduttore di Baudelaire (I fiori del male, 2003), Mallarmé, Rilke, Valéry, Celan, Jabès, Machado, Bonnefoy, ha raccolto molte delle sue traduzioni poetiche in L’ospitalità della lingua (2014). Presso Bollati Boringhieri sono usciti: Trattato della lontananza (2008), All’ombra dell’altra lingua. Per una poetica della traduzione (2011), Compassione. Storia di un sentimento (2013) e Il cielo nascosto. Grammatica dell’interiorità (2016), vincitore del Premio Mondello.

lavora in biblioteca. Terminati gli studi in Giurisprudenza e in Teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali d’oriente e d’occidente, ampliando, allo stesso tempo, la sua ricerca poetica. Nel corso degli ultimi anni suoi contributi, sulla poesia e la parola, sono stati pubblicati da Fara Editore e dalle Edizioni CFR. É stato condirettore della collana di scrittura, musica e immagine “La pupilla di Baudelaire” della casa editrice Le loup des steppes. In poesia ha pubblicato Legni (Ladolfi Editore, 2014 - Premio “Oreste Pelagatti” 2015), il libro d'arte Borgo San Giovanni (Fiori di Torchio, Seregn de la memoria, 2018). Al di qua di noi (Arcipelago itaca Edizioni, 2023) è la sua ultima raccolta.

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