OLTRE

I “Racconti di un Pellegrino Russo” – La pratica del nome, nel cuore. Una preghiera

I Racconti, quelli di un perenne viaggio spirituale. Un cammino interiore, profondo e totalizzante, improntato e illuminato da una particolare pratica ascetica: la “preghiera del cuore”. Una continua immersione in una preghiera, la più radicale: “Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me peccatore”.

Di continuo la stessa invocazione che, progredendo, diviene sempre più intima e spontanea. Un moto “senza intermissione” [Paolo di Tarso]. Un flusso che non si interrompe mai, con il respiro, con il battito del cuore. Come l’amore vero.

E va anche ricordato che, proprio la “preghiera del cuore” è richiamata nell’Esicasmo, al centro della tradizione monastica orientale. Un patrimonio spirituale immenso, da accogliere come un dono originario.

Tutto sorge dall’invocazione “del nome di Gesù”, sulla via dell’intelletto celeste, verso la vera Gnosi del cuore. Poiché questa è connessa al moto originario della Creazione, ai suoi fini, alla sua luce.

Racconti di un Pellegrino Russo. Introduzione di Cristina Campo (Rusconi Editore, 1973)

dalla presentazione

[estratto]

Romanzo picaresco, grande trattato spirituale, fiaba classica, i Racconti di un pellegrino russo sono fra i grandi testi della letteratura russa del secolo scorso. L’autore è ignoto, ma tutt’altro che inesistente: probabilmente fu un contadino giunto a un alto grado di vita spirituale e già amico del grande starets Macario. In questo misterioso testo dallo stile semplice e limpido, la fiaba, come ha scritto Cristina Campo nell’introduzione, si mostra per la prima volta senza maschera: una ricerca del Regno dei Cieli, l’inseguimento di una visione ignota e inesplicabile, spesso soltanto di un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, si diventa appunto mendichi e pellegrini, beati folli dal cuore in fiamme dei quali il mondo si fa beffe e che il mondo «che è dietro quello vero» soccorre e guida con meravigliosi segni e portenti. Come quell’eroe nordico che a ogni prezzo voleva «imparare a rabbrividire», il Pellegrino russo è risoluto a procedere all’infinito dinanzi a sé, oltre le steppe e le foreste, le città e i villaggi, oltre l’interminata curva del globo se occorre, purché gli sia svelato il senso di tre parole dell’apostolo Paolo udite per caso in una chiesa: «Pregate senza intermissione». Il racconto del Pellegrino russo non è se non la cronaca della sua stupefatta ed ebbra convivenza con la Preghiera del Nome. È questa la gemma portentosa il cui fulgore protegge il corpo e illumina l’intelletto, disvela cose lontane e ammansisce le fiere, vince tutti i cuori, sazia tutti i bisogni e tramuta tutti i paesaggi.

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Introduzione

di Cristina Campo

Estratto pp. 5-9

«Per grazia di Dio sono uomo e cristiano, per azioni grande peccatore, per vocazione pellegrino della specie più misera, errante di luogo in luogo. I miei beni terrestri sono una bisaccia sul dorso con un po’ di pan secco e, nella tasca interna del camiciotto, la Sacra Bibbia. Null’altro». Questa apertura, tra le più ammalianti della letteratura di ogni paese – comparabile a quella dell’Amleto o della Storia del facchino di Bagdad – inaugura insieme un grande trattato spirituale, un romanzo picaresco, un risplendente poema russo e una fiaba classica.

Nel misterioso testo anonimo trascritto sull’Athos dall’abate Paissy del monastero di S. Michele Arcangelo dei Ceremissi presso Kazan’ intorno al 1860, la fiaba per una volta si mostra senza maschera, mostra cioè quello che tutte le grandi fiabe sono copertamente: una ricerca del Regno dei Cieli, l’inseguimento di una visione ignota e inesplicabile, spesso soltanto di un’arcana parola, per la quale si diserta di colpo la terra amata e ogni bene, ci si fa appunto pellegrini e mendichi, beati folli dal cuore in fiamme dei quali il mondo intero si fa beffe e che il mondo «che è dietro quello vero» soccorre e guida con meravigliosi segni e portenti.

Come quell’eroe nordico che a ogni prezzo voleva «imparare a rabbrividire», il Pellegrino russo è risoluto a procedere all’infinito dinanzi a sé, oltre le steppe e le foreste, le città e i villaggi, oltre l’interminata curva del globo se occorra, purché gli sia svelato il senso di tre parole dell’apostolo Paolo udite per caso entrando in una chiesa: «Pregate senza intermissione». Di questo comando, che gli appare subito fatidico ed iperbolico (come pregare senza intermissione, occupati come siamo a pressoché ininterrottamente vivere?), il Pellegrino trova abbastanza presto la chiave. Un incantevole genio, quello starets che è difficile dire se egli lo incontri in corpo o in ispirito, tanto la morte che li separa poco dopo si rivela incidente trascurabile, dal quale il loro estatico dialogo non è neppure momentaneamente sospeso, gli consegna una antica e possente formula sacra, una invocazione brevissima nella quale è contenuto il Nome «che è sopra ogni nome e al quale piegano il ginocchio il cielo, la terra e gli inferni»: «Signore Gesù Cristo, Figlio di Dio, abbi pietà di me». Altri due talismani accompagnano il dono e hanno, come lo schiavo della lampada di Aladino, il compito di insegnarne l’uso: un libro dal titolo singolare: Filocalia o Amore della Bellezza, e un rosario ritualmente intrecciato, ogni nodo formato da sette nodi, sul quale scandire infinitamente la formula.

Il racconto del Pellegrino russo non è se non la cronaca della sua stupefatta ed ebbra convivenza con la Preghiera del Nome. È questa la gemma portentosa il cui fulgore protegge il corpo e illumina l’intelletto, disvela cose lontane e ammansisce le fiere, vince tutti i cuori, sazia tutti i bisogni e tramuta tutti i paesaggi. Non solo: è anche una presenza, vivente al punto, e al punto dolcemente imperiosa, che un bel mattino «è la Preghiera a svegliarlo», e dopo sarà sempre lei a sollecitarlo, a stringerlo nel suo anello di prodigi, nella sua mandorla di beatitudine. Stretto tra le braccia di questa invisibile principessa che lo rapisce in volo, il Pellegrino giunge a sperimentare la condizione tra tutte al mondo deliziosa: non lui prega la Preghiera, ma dalla Preghiera è pregato, non lui ne vive ma ne è vissuto, non il suo cuore scandisce le divine parole ma ne è divinamente scandito.

All’ingresso del celeste labirinto, l’apostolo Paolo, impartendo quel suo strano comando, «Pregate senza intermissione», sapeva bene ciò che questo significa: «Vivo autem, iam non ego, vivit vero in me Christus…». «Ipse Spiritus postulat pro nobis gemitibus inenarrabilibus…». Procede così il Pellegrino, accompagnato dalla profonda voce recitante dei Padri antichi che nella Filocalia lasciarono sulle virtù della Preghiera del Nome le illuminazioni della loro esperienza. Il vecchio libro è l’abbagliante teoria; il racconto del Pellegrino la biografia, il passaggio dal voi magistrale all’io tremante ancora del discepolo appena iniziato, dal metodo alla vita. Dai maestosi trattati sulla grazia di sant’Agostino alla pura lirica delle Confessioni.

Intorno a questa ubriacante storia d’amore tra il Pellegrino e la sua Preghiera, si disvela e si costella da solo, a ogni passo, un moltitudinario, meraviglioso mondo. Che non è per nulla diverso, all’apparenza, da quello di un altro poema metafisico russo, le Anime morte di Gogol. Ma queste, per l’appunto, sono le anime vive, celate dietro le morte come «il mondo che sta dietro quello vero». È la Russia eccelsa e popolare, verticale ed ascetica che gravita e si alimenta intorno alle lavre e ai santuari, agli eremitaggi dei suoi taumaturghi e alle sue divinissime liturgie: la Russia che, proprio perché rimasta totalmente russa, conserva in sé, come un sigillo imperiale, «la forma precisa di Bisanzio».

Dovunque passi il Pellegrino, questa estatica Russia esce dall’ombra. Amorose lucertole strisciano fuori per ogni dove da fenditure e crepacci, brulicano soavemente verso quel raggio regale: il Nome reiterato nella Preghiera. È la mirabile, mortalmente silenziosa massoneria degli oranti. Nelle stazioni di posta, tra i deportati, sulle soglie delle osterie, nella chiara casa patrizia raggiante di icone e di libri preziosi, il cui signore si china a calzare di fresche fasce i piedi polverosi del «Cristo itinerante», non c’è bisogno di domande. Un lieve, costante tremito della lingua mossa dalla incessante invocazione, una visionaria letizia nello sguardo, pochi accenti di lancinante dolcezza: il riconoscimento è fulmineo, l’intimità totale tra quei piagati dalla stessa grande avventura; e le storie escono dalle storie, come le vecchie concentriche bambole russe, una più straordinaria dell’altra e senza alcuno stupore. Così nelle Anime morte nessuno dei «venditori d’anime» si meravigliava dell’inconcepibile mercato proposto. Lo stesso Gogol, come è noto, intendeva comporre, e in parte anche compose verso la fine della sua vita, il poema dell’altra Russia, questa delle anime vive celate dietro le morte. Se inesplicabilmente decise di abbandonare e distruggere quel poema, forse è perché proprio allora, in qualche luogo, lo stava tracciando la mano del Pellegrino.

Di tutta la miracolosa vicenda forse è questo il miracolo più vistoso: che essa sia divenuta un racconto: con la sua continuità strutturale, i suoi augusti e innocenti refrains omerici, la sua maestria narrativa concessa, in puro soprammercato, all’intuizione spirituale; e che il minimo dei suoi capitoli, quello per esempio nel quale il Pellegrino è derubato dei suoi due libri, o l’altro sulla guarigione delle gambe assiderate, non siano letterariamente meno incandescenti della scena di Anna Karenina alle corse o della confessione di Madame de Clèves. Che questo libro supremamente indifeso esista, infine, che qualcuno abbia pensato di scriverlo e l’abbia scritto così. E, per converso, che proprio in questa forma letteraria così candidamente determinata, così inconsapevolmente adorabile, si sia avvolto il grande segreto spirituale dell’Oriente cristiano.

Racconti di un Pellegrino Russo. Traduzione dal russo di Milli Martinelli. Introduzione di Cristina Campo (Rusconi Editore, 1973)

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lavora in biblioteca. Terminati gli studi in Giurisprudenza e in Teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali d’oriente e d’occidente, ampliando, allo stesso tempo, la sua ricerca poetica. Nel corso degli ultimi anni suoi contributi, sulla poesia e la parola, sono stati pubblicati da Fara Editore e dalle Edizioni CFR. É stato condirettore della collana di scrittura, musica e immagine “La pupilla di Baudelaire” della casa editrice Le loup des steppes. In poesia ha pubblicato Legni (Ladolfi Editore, 2014 - Premio “Oreste Pelagatti” 2015), il libro d'arte Borgo San Giovanni (Fiori di Torchio, Seregn de la memoria, 2018). Al di qua di noi (Arcipelago itaca Edizioni, 2023) è la sua ultima raccolta.

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