POETICA

Gottfried Benn – Lo smalto sul nulla. L’io moderno e la poesia

La prosa di Benn ha sempre un andamento nervoso, sollecitato da un continuo sfolgorio di immagini, dalla imprevedibilità dei temi affrontati. Dai numerosi scarti linguistici. Una scrittura euforica, frutto di un pensiero ricco di suggestioni e accensioni improvvise.

Nel saggio che segue, Benn, parla di poesia – ma in particolare parla del poeta, della sua arte, della sua [ir]relazione rispetto a ogni epoca. Ma chi è il poeta? Da dove proviene la sua arte? Da dove l’origine della sua creazione? Questa è la questione di fondo, qui. Che poi è nell’Io che, Benn, concentra la sua ricerca. Nell’Io, in primis, retrocedendo, verso la sua natura arcaica. Quindi di nuovo mediante slanci fulminei oltre la trama della storia, oltre il suo nulla.

Tra sprofondamenti e riemersioni – tra sogno e veglia – dall’archetipo del corpo, dal suo mistero. Poiché il corpo conserva in sé il suo germe originario, la sua scaturigine, da dove fluisce senza requie l’impeto dell’io. Un supporto sempre galvanizzato, lanciato nel tempo, nella modernità. Ed è da questo corpo [magico], dalle sue forze ancora libere, che nasce la poesia. Come un continuo moto dall’abisso.

da

Gottfried Benn, Lo Smalto Sul Nulla (Adelphi, 1992)

estratti da pp. 33-44

p. 33

[…]

Il poeta e il suo tempo, una formulazione assai popolare — che candore, che sicurezza tutta d’un pezzo, in campi in cui tutto è problematico! Infatti, che cosa è il tempo, parla forse con noi, parliamo noi con lui, che nome ha, fa il richiamo a se stesso, come il cuculo, o lo fa più tardi alla sua covata cresciuta in nidi altrui? Da dove viene la figura che esso assume, chi accompagna la sua metamorfosi, è proprio il poeta a doverlo fare in qualità di propagandista per il suo ceto medio?

Nello sfondo permane però il problema più complesso: la grandezza artistica può mai essere storicamente efficace, può inserirsi nel processo del divenire? Ci si è inserito Nietzsche? Col piccolo gruppo di letterati che va in cerca di citazioni nelle sue opere? O Goethe? O Michelangelo? Qualunque condottiero, qualunque intrigante di corte sarebbe loro superiore quanto a possibilità e a riuscita. Non è forse l’artista privo a priori di influenza sulla storia, limitato all’ambito fenomenologico dell’anima? Non lo si deve forse sottrarre semplicemente a tutte le categorie storiche, al potere e al suo dispiegarsi, all’ambito sociale e a quello forense, alle idee di evoluzione e di progresso come a un metodo di rappresentazione puramente naturalistico, sfera puramente empirica, esteriore, non dialettica, causalità caso per caso? In una parola: che cosa dobbiamo pensare del processo storico? Può esso, può qualcuno in suo nome pretendere che l’arte o la conoscenza stiano al suo servizio? […]

p. 37

Che servire l’epoca o prepararle la via non può essere giammai il compito e la vocazione del gran-d’uomo, del poeta; che piuttosto la sua grandezza consiste proprio nel fatto che gli manca qualsiasi presupposto sociale, che esiste un abisso, che è lui a rappresentare l’abisso di fronte a questa massicciata della civiltà tecnica, a tipi ormai sostanzialmente del tutto incapaci di esprimersi, a psichi appiattite dall’analisi, a genitali edonizzati, alla fuga nella nevrosi: happy end. Che egli lascia dietro di sé tutto questo, sposta in avanti la prospettiva della sua origine e della sua responsabilità fin là dove i sistemi logici vengono meno, si lascia sprofondare sempre più giù in una specie di febbre di ricaduta e di parto ultrarapido verso l’interno, verso il basso. […]

p. 39

Chi sogna il sogno? – L’Io […]

p. 41

Sì, l’Io è più oscuro di quanto pensasse il secolo. No, il cervello non è l’esercitazione nella pratica dell’illuminismo destinata a dare alla sua esistenza contorni di civiltà tecnicizzata. […]

p. 42-44

L’Io ampliato in questa natura arcaica, l’Io che esplode iperemicamente, a questo Io sembra intimamente congiunto il mondo della poesia. Ma che cosa significa questo, che cosa si esprime in questo, che cosa esclude, da dove promana il suo impeto? Un passo nel buio, una teoria di puro nichilismo per tutti quelli per i quali positivismo significa felicità, gioco delle opportunità e progresso, un passo di là da ogni ideologia intesa come ormonizzazione lirica di sistemi storici, di là da ogni realtà intesa come punto d’approdo dell’urlio dei piagnoni quantistici, un passo da una miseria da profughi verso un dio dell’ora. Ciò che rimane come trascendenza del sesso non metaforizzato, come realtà con simboli allucinatori, canone di ciò che è naturale e geroglifico fatto di fantasmi, materia senza idea e però medium per assorbirne la dimensione magica –: ciò che rimane è il corpo col suo fondo, sottratto all’arbitrio, sul quale noi viviamo nella nostra ambiguità, col suo essere che solo per due terzi è nato e per un terzo non è nato, con le sue zone inesplorabili nel sogno come nella veglia, regno delle ombre dal quale non c’è ritorno, terra stigia su cui giuravano gli dèi.

Da lontano viene il sogno che si ritrova nel suo corpo, un sogno, un animale; da lontano i misteri di cui esso è carico, da quei popoli primitivi che portavano ancora in sé le epoche primordiali, l’origine, col loro modo, a noi così estraneo, di avvertire il mondo, con le loro enigmatiche esperienze provenienti da sfere preconsce, con i loro corpi in cui la coscienza interna era ancora labile, le forze costruttive dell’organismo ancora libere, cioè accessibili alla coscienza come al centro d’organizzazione, in cui era ancora mobile ciò che oggi è da lungo tempo sottratto all’arbitrio, un tipo altro da noi in senso biologico, massa arcaica, strato primitivo che nel totem vedeva ancora l’animale con la ferita fresca.

Il corpo è l’ultima costrizione e il profondo della necessità, è il portatore del presentimento, sogna il sogno. Del tutto evidente il carattere di turgore della creazione, che in esso ha istituito le proprie coordinate e, nelle sue ebbrezze, va in cerca di una forma. Tutto trova la sua forma a partire da quei geroglifico che è il corpo: stile e conoscenza; tutto dà il corpo: morte e piacere. Concentra l’individuo e lo indirizza verso i suoi punti di rilassamento, la germinazione e l’estasi, ebbrezza e fuga per ciascuno dei due regni. Esiste — e così si conclude questa teoria iperemica sulla natura della poesia — solo un’ananke: il corpo; solo un tentativo di rottura: i turgori, quelli fallici e quelli centrali; solo una trascendenza: la trascendenza del piacere sfingoide.

Esiste soltanto il solitario e le sue immagini, da quando non c’è più un Manitu che ci redima assorbendoci nell’unità del clan. Scomparsa la partecipazione mistica, attraverso la quale la realtà veniva succhiata, bevuta e poi secreta in sogni ed estasi; eterno però il ricordo del suo processo totalizzante. Esiste solo lui: fra le coazioni a ripetere, sotto la legge, decretata individualmente, del divenire nel gioco della necessità, egli è al servizio di questo sogno immanente. Dei suoi presupposti sociali non si preoccupa: fra gli uomini è, come uomo, impossibile: questo lo dice Nietzsche a proposito di Eraclito, e dunque risa sulla sua vita. Altri parlino pure, fra le righe e senza abissi, di cose che si sono verificate solo più tardi, descrivano pure rapporti che passano, vivano pure di problemi che tosto si dissolvono: sempre e in tutti i tempi egli ritornerà, colui per il quale tutta la vita non è altro che un chiamare dal profondo, da una profondità antica e primitiva, e «tutto ciò che è caduco è solo un simbolo» di una sconosciuta, primordiale esperienza di vita che in lui va in cerca di ricordi.

Un’oscura forma, e incrollabile. Le cornacchie sono il suo grande animale: «gridano e volano verso la città con ali frullanti, presto nevicherà, guai a colui che non ha casa». E quando nevica, quando egli sprofonda, tutto lo respinge, la metà della notte, la notte delle Madri: «Che tu non possa finire, questo ti fa grande, e che tu mai cominci, questa è la tua sorte; il tuo canto ruota come la volta stellata, inizio e fine perpetuamente lo stesso».

Gottfried Benn, Lo Smalto Sul Nulla. Traduzione di Luciano Zagari. A cura di Luciano Zagari (Adelphi, 1992)

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Gottfried Benn, poeta tedesco (Mansfeld 1886 – Berlino 1956). Formatosi nel clima dell’espressionismo, portò alcuni motivi di quella corrente (la diagnosi dell’individuo in chiave biologico-materialistica, la prospettiva pessimistica della decadenza) e i connessi risultati formali (primo fra tutti la violenta spezzatura del discorso) a un livello espressivo esemplare nelle raccolte liriche Morgue (1912), Fleisch (1917), Schutt (1919) e nelle coeve pagine narrative, fortemente autobiografiche, del Ronne (1915-16).

da Enciclopedia Treccano online

la biografia completa Qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/gottfried-benn/

lavora in biblioteca. Terminati gli studi in Giurisprudenza e in Teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali d’oriente e d’occidente, ampliando, allo stesso tempo, la sua ricerca poetica. Nel corso degli ultimi anni suoi contributi, sulla poesia e la parola, sono stati pubblicati da Fara Editore e dalle Edizioni CFR. É stato condirettore della collana di scrittura, musica e immagine “La pupilla di Baudelaire” della casa editrice Le loup des steppes. In poesia ha pubblicato Legni (Ladolfi Editore, 2014 - Premio “Oreste Pelagatti” 2015), il libro d'arte Borgo San Giovanni (Fiori di Torchio, Seregn de la memoria, 2018). Al di qua di noi (Arcipelago itaca Edizioni, 2023) è la sua ultima raccolta.

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