PENSIERO

Sergio Quinzio – Gli occhi moderni e il sacro. Al di qua dell’eschaton

Il pensiero di Sergio Quinzio, così radicalmente tragico ed esistenziale, si contrappone a ogni sistema filosofico, essendo in sé un’interrogazione incessante che attraversa l’esserci, assumendone ogni lacerazione.

Tra inquietudine e fede, demolizione e riedificazione, sempre “umile e paradossale” [e mai misticheggiante], il suo è un pensiero che fa emergere il senso “agonico” della vita. Privo di ogni appoggio che non sia la propria fede. Nella più assoluta insecuritas, propria di ogni tempo dell’attesa.

Quinzio, quindi, assume su di sè la nostalgia e il senso di abbandono [tipici della spiritualità ebraica], così come la possibilità della disperazione e della caduta [nell’avvicendarsi di Dio].

La parola cerca una salvezza, invisibile da dentro la storia, mentre la scrittura manifesta l’insondabile silenzio di Dio (teologia apofatica). Così tutto si rivela mediante un linguaggio dell’assenza, però sempre vivificato da un profondo desiderio di “vedere Dio”. Un sentire la sua presenza mediante il solo “credere”. Come in un “già ma non ancora”.

Per questo Quinzio detesta ogni compiacimento letterario, poiché – rispetto all’essenziale – ogni piano estetico non può che risultare sciocco e deviante.

Nel seguente breve saggio (qui si riportano solo alcuni estratti) i temi tra loro connessi sono: la storia del sacro, il simbolo, e quindi il tempo finale: l’eschaton – a proposito del quale Quinzio affermerà: “Solo dalla realtà escatologica si comprende il sacro, perché si comprende veramente solo ciò che si supera”.

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Adelphiana 1971 (Adelphi, 1971)

OCCHI MODERNI GUARDANO IL SACRO

estratti da pp. 133-140

Se vai verso il piccolo trovi infiniti piccoli: nel nucleo dell’atomo si moltiplicano le particelle come nei segmenti di retta le metà delle metà. Se vai verso il grande trovi infiniti grandi: galassie e universi in espansione. Verso il complesso infiniti complessi (cibernetiche, virus e inconsci), verso il passato infiniti passati (ere geologiche e nebulose primordiali), verso il futuro infiniti futuri (evoluzioni e soli spenti).

[…]

È dato un orizzonte capace di accogliere questi abissi spalancati? Nel sacro non c’è gioia o dolore, ordine o caos, luce o tenebra, amore o odio, vita o morte, bene o male, vero o falso, bello o brutto, pace o guerra, forza o debolezza, dominio o sottomissione. C’è la gioia del dolore e il dolore della gioia, leggi di pietra e anomie ventose, stragi e struggimenti, tombe per nascere e matrici per morire. I nostri sadismi e masochismi, dittature e rivoluzioni, forni crematori e sessi più o meno scatenati sono divagazioni, piccole scorie.

Al principio c’è un eccesso di significato (ogni parola o gesto è un germe che cresce, una radice che dilaga, è turgido di rischiose possibilità), e quindi negli antichi c’è un disperato bisogno di chiudere, di stringere, di risolvere. Alla fine c’è un vuoto di significato (ogni parola o gesto occupa solo la superficie, è qualcosa di sterile e labile, isolato e precario), e quindi nei moderni c’è un disperato bisogno di aprire, di allargare, di approfondire. L’estremo del profano moderno tocca così l’estremo del sacro antico. Sono in gioco tutti i millenni intermedi, ed è questo l’ultimo gioco che abbia senso giocare. Attraverso i millenni hanno nascosto il sacro manti di moralizzazioni e di estetiche. Gli stupri del mondo che compivano i diluvi, le piogge di zolfo infuocato, le guerre di Jahweh, il herem per esecrazione, sono diventati saggia e benevola provvidenza. Ma l’uomo non può vivere senza orrore, perché la vita è orrore, e rimpiange il sacro. Gran parte della letteratura contemporanea, la migliore, è questo rimpianto (tutta la letteratura è nostalgia del sacro, maschera di parole sulla perduta parola che crea, ma adesso comincia a saperlo).

Per la moderna nostalgia il sacro resta però di là dal muro: labirinto indecifrabile, onfalos segreto della realtà. C’è un culto profano reso al sacro, qual è quello delle straordinarie letture che dei Salmi, dell’Ecclesiaste e della Genesi fa Guido Ceronetti. A occhi moderni il sacro appare inseparabilmente affascinante e insondabile, affascinante perché insondabile, come gli indefiniti leopardiani. Occhi moderni vedono la forma vuota del sacro, il cadavere del sacro, vedono il mare del turista, non quello del marinaio. Gli antichi invece abitavano nel sacro, ne percorrevano la mortale percorribilità. E anche a noi, per entrarci, non manca che morire: stiamo infatti per entrarci, appena ci sentiremo finalmente morenti tanto da non poterlo sostenere, appena non avremo più parole per dire che moriamo. Se visto dal profano è caos che attrae come abisso, in sé il sacro è ordine di diamante, vetta. Il mistero sacro è per lo svelamento, la violazione per la delizia di un godimento tenerissimo. Il sacro è mortalmente percorribile.

[…]

Non c’è sacralità, non c’è sacro in astratto. Come la religiosità, così la sacralità non è che una negatrice equiparazione estrinseca di singoli sacri concreti. Il sacro non è un’idea, è sempre un preciso fatto

[…]

Se guardato dall’interno ogni sacro è tutto il sacro (non si può essere all’interno di più sacri insieme), dall’esterno, dal profano, si vede solo, invece, una disperante pluralità, quella che dà appunto l’immagine della caotica sacralità. Sacralizzare è vincere affrontando e dominando i mostri del caos.

[…]

Poiché l’opera sacra è il sacrificio, i sacri non possono proliferare liberamente ad lib itum come le profanità, che per quanto si moltiplichino non riempiono mai il vuoto. L’uomo moderno, tormentato dalla nostalgia, tenta di sacralizzare le passioni e le parole degli uomini, la mulatta di Baudelaire o i cortili di periferia. Ma questi tentativi, profanamente sublimi, sono sacralmente squallidi, e solo il loro squallore giunge qualche rara volta a sfiorare il sacro. Tutto è sacralizzabile, è vero, ma solo Dio con immenso sacrificio rende sacre le cose per il suo popolo, solo Dio compie il miracolo per il suo popolo, in illo tempore. Non tutti i tempi si può, non tutti i kairoi sono uguali.

Adesso sta per venire il tempo in cui sarà sacra la nostra definitiva maledizione. I fatti e gli atti non hanno, come vorrebbe l’analitica mentalità moderna, una loro oggettiva e autonoma individualità, distinta dalla loro destinazione e interpretazione. La loro realtà vera è la disponibilità al sacro. Un gesto, una parola, un oggetto sono intimamente la potenza di essere perfetti, assoluti: il gesto, la parola, l’oggetto. Per questo vengono compiuti, pronunciati, creati. (Non nasce un bambino, ma il bambino).

Così è in principio, e così vuol essere ancora oscuramente la parola del poeta o del bambino che la pronuncia nuovissima. Un bambino impiega anni per adattarsi faticosamente a distinguere ‘ realtà ‘ da ‘ fantasia ‘, a subire l’assurdo di un ‘ mondo reale ‘ che contraddice le sue aspettative, che non obbedisce alla sua volontà. Che il gesto compiuto, che la parola detta, che l’amore amato, che la vita vissuta, che la storia operata, che l’universo creato si consumino, finiscano, si perdano, si dimentichino, si ripetano, si moltiplichino, si elidano, si vanifichino, è mysterium iniquitatis.

Allora ognuna di queste cose rivelatasi mortale è fatalmente sentita come figura, segno, simbolo della Cosa che avrebbe dovuto essere, che era attesa essere. Mucchio di pietre che restano di una torre crollata prima di essere compiuta. Ogni figura, segno, simbolo, veramente vive fino a quando vive la certezza che non sia figura, segno, simbolo.

La coscienza allegorizzante, che accetta di separare la realtà allusa dalla realtà alludente, apre la catena delle moderne razionalizzazioni. Via via la realtà allusa, al ripetersi inesorabile dei fallimenti, si rende sempre più remota da noi (tanti miti e leggende ebraiche raccontano che Dio si allontanò fuggendo nei cieli). Allora l’allusione si fa sempre più distaccata e debole, meno partecipe, sempre più pallida e più malata. Quando la realtà allusa è ormai troppo remota, prende autonoma consistenza quella alludente, fino a diventare tutta la realtà. Ma infine, privata di ogni sostanza di significato, deperisce e si annulla definitivamente.

Noi siamo a questo punto della storia. Il simbolo dunque, che è ciò che gli occhi moderni riescono a vedere del sacro, in un nuovo e ultimo mito della caverna, non è che il tragico aborto della realtà simboleggiata. Si vede il simbolo se si è incapaci di vedere il sacro. Bisogna fuggirlo come la peste, e i moderni l’adorano, perché anche un aborto, visto dal nulla, sembra il miracolo di una creatura bellissima. Ogni figura, da sempre, doveva essere la realtà figurata, ed è diventata figura solo perché non lo è stata, solo per questo fallimento di essere. Il sacro è vissuto, da chi autenticamente lo vive, come un’impossibilità, come inaccettabile fallimento. È sospeso tra evento cosmogonico-escatologico (in cui deve compiersi ciò che pienamente doveva essere da sempre, quando finalmente un gesto, una parola, una vita, una storia, un popolo, un universo, diventano il gesto, la parola, la vita … ) e momento simbolico, in cui un gesto, una parola, una vita … diventano segni terribili e sublimi di quel che doveva essere e non è stato. Il sacro è l’opera escatologica che non riesce a operarsi. Per questo l’anima del simbolo è, in ogni mito, cosmogonica.

Per questo, anche, ogni simbolo, in quanto non realizzato, è ambivalente, volto bifronte verso il tutto e verso il nulla. Per questo il profeta Osea può condannare la lotta di Giacobbe con Dio (Os. 12, 3-5). E per questo, infine, ci sono più sacri, perché ogni sacro fallisce. I moderni, non potendo entrare nel sacro che li affascina, cercano lontani sacri esotici, dove il momento simbolico, almeno per noi oggi, ha cancellato quello escatologico. Il sacro che hanno accanto vicinissimo, l’abisso che sta subito alle loro spalle, non osano guardarlo, perché è affascinante guardare l’abisso, ma tremendo precipitarvi.

[…]

Il sacro ha dunque una storia, è mortalmente percorribile. Il sacro fallisce, il sacro si allontana, il sacro si rifugia in forme deteriori, il sacro viene rifiutato, ci si compiace della profanità, e si è già nel nulla. Ma lo stesso passaggio attraverso la profanità è destino sacro, passaggio attraverso la più totale morte per la più perfetta salvezza. Nella Gerusalemme celeste non c’è nessun tempio (Ap. 22, 22). La ‘ separazione ‘ che è il sacro deve finire. Solo dalla realtà escatologica si comprende il sacro, perché si comprende veramente solo ciò che si supera.

Adelphiana 1971 (Adelphi, 1971)

Sergio Quinzio (Alassio, 1927 – Roma, 1996). Teologo, scrittore ed esegeta biblico italiano, tra i più originali del XX secolo. Dopo la morte della prima moglie, si ritira in un paesino delle Marche, dove si dedica principalmente allo studio della Bibbia. Ha collaborato con «La Stampa», il «Corriere della sera», «l’Espresso. Tra le sue opere, caratterizzate dall’intrecciarsi del motivo autobiografico con le argomentazioni teologiche, ricordiamo: Un commento alla BibbiaDalla gola del leoneLa croce e il nullaLa sconfitta di DioMysterium iniquitatis, tutte edite da Adelphi.

La biografia completa Qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/sergio-quinzio_(Dizionario-Biografico)/

lavora in biblioteca. Terminati gli studi in Giurisprudenza e in Teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali d’oriente e d’occidente, ampliando, allo stesso tempo, la sua ricerca poetica. Nel corso degli ultimi anni suoi contributi, sulla poesia e la parola, sono stati pubblicati da Fara Editore e dalle Edizioni CFR. É stato condirettore della collana di scrittura, musica e immagine “La pupilla di Baudelaire” della casa editrice Le loup des steppes. In poesia ha pubblicato Legni (Ladolfi Editore, 2014 - Premio “Oreste Pelagatti” 2015), il libro d'arte Borgo San Giovanni (Fiori di Torchio, Seregn de la memoria, 2018). Al di qua di noi (Arcipelago itaca Edizioni, 2023) è la sua ultima raccolta.

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