PENSIERO

Maurice Blanchot – la solitudine dell’opera

La solitudine essenziale

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Raccoglimento in sé. Anche di questo parla Maurice Blanchot nel suo libro Lo spazio letterario (Einaudi 1967) . E di una solitudine come di uno stato protratto di contemplazione, proprio all’essenza dell’opera. Del raccogliersi sempre in uno stesso punto concorde al nostro operare. Del nostro inconsapevole osservarci da lì, di fronte al nostro pensiero che crea. Senza intermissione, poiché nessuna opera umana è mai conclusa.

[pp. 7-8]

Si direbbe che apprendiamo qualche cosa intorno all’arte quando sperimentiamo ciò che la parola «solitudine» vorrebbe designare. Di questa parola si è fatto grande abuso. Tuttavia, «essere solo» che cosa significa? Quando è che siamo soli? Porre un simile interrogativo non deve indurci soltanto ad opinioni patetiche. La solitudine a livello del mondo è una ferita sulla quale non è qui il caso di dilungarsi. Né intendiamo riferirci alla solitudine dell’artista, quella che gli sarebbe necessaria, si dice, per esercitare la sua arte. Quando Rilke scrive alla contessa di Solms-Laubach (il 3 agosto 1907): «Da settimane, a parte due brevi interruzioni, non ho pronunciato una sola parola; la mia solitudine finalmente si chiude e io sto nel lavoro come il nocciolo nel frutto », la solitudine di cui parla non è essenzialmente solitudine: è raccoglimento.

La solitudine dell’opera

La solitudine dell’opera – l’opera d’arte, l’opera letteraria – ci svela una solitudine più essenziale. Essa esclude l’isolamento compiaciuto dell’individualismo, ignora la ricerca della differenza; il fatto di sostenere un rapporto virile in un compito che copre lo spazio controllato del giorno, non vale a dissiparla. Chi scrive l’opera è messo in disparte, chi l’ha scritta è congedato. Colui che è congedato, inoltre, non lo sa.

Questa ignoranza lo preserva, lo distrae autorizzandolo a perseverare. Lo scrittore non sa mai se l’opera è compiuta. Ciò che egli ha terminato in un libro, lo ricomincia o Io distrugge in un altro. Valéry, celebrando nell’opera questo privilegio dell’infinito, non ne vede però che il lato più facile: che l’opera sia infinita, vuol dire (per lui) che l’artista, non essendo capace di porvi termine, è però capace dì fame il luogo chiuso di un lavoro senza fine, la cui incompiutezza proietta il prestigio dello spirito, esprime questo prestigio, lo esprime proiettandolo sotto forma di potere.

A un certo momento le circostanze, vale a dire la storia, sotto la specie dell’editore, delle esigenze finanziarie, degli obblighi sociali, pronunciano la fine che manca e l’artista, reso libero grazie a una soluzione tutta forzata, persegue altrove l’incompiuto. L’infinito dell’opera, in questa visuale, non è che l’infinito dello spirito. Lo spirito vuole compiersi in una sola opera invece che realizzarsi nell’infinito delle opere e nel movimento della storia.

 Ma Valéry non fu in alcun senso un eroe; pensò bene di parlare di tutto, di scrivere su tutto: cosi il tutto sparso del mondo lo distraeva dal rigore del tutto unico dell’opera; egli si era amabilmente lasciato distogliere. L’eccetera si nascondeva dietro la diversità dei suoi pensieri, dei suoi temi.

Tuttavia, l’opera – l’opera d’arte, l’opera letteraria – non è né compiuta né incompiuta: essa è. Ciò che dice è esclusivamente questo: che essa è – e niente di più. Al di fuori di questo, non è niente. Chi vorrebbe che esprimesse qualcosa di più, non trova niente, trova che essa non esprime niente. Chi vive nella dipendenza dell’opera, sia per scriverla sia per leggerla, appartiene alla solitudine di ciò che soltanto la parola « essere» esprime: parola che il linguaggio accoglie dissimulandola o che fa apparire scomparendo nel vuoto silenzioso dell’opera.

La solitudine dell’opera ha come primo sfondo quest’assenza d’esigenza che non permette mai di dirla compiuta né incompiuta. Essa non ha riprova, allo stesso modo che è priva di uso. Essa non si verifica, la verità può afferrarla, la fama la illumina: questa esistenza non la riguarda, questa evidenza non la rende né sicura né reale, né la rende manifesta.

L’opera è solitaria: ciò non significa che essa rimanga incomunicabile, che il lettore le venga a mancare. Ma chi la legge entra nell’affermazione della solitudine dell’opera, come chi la scrive appartiene al rischio di questa solitudine.

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Maurice Blanchot, da Lo spazio letterario (Einaudi 1967), pp. 7-8

Traduzione di Gabriella Zanobetti

Titolo originale L’éspace littéraire (Editions Gallimard 1955)



Maurice Blanchot, romanziere e saggista francese (Quain 1907 – Parigi 2003). La sua narrativa, che si ricollega alla tradizione della letteratura fantastica, ruota intorno al tema dell’assurdo, che per B. è sia il carattere decisivo della condizione umana sia della letteratura, luogo della contraddizione, del paradosso, dell’angoscia. I personaggi di B. si rivelano figure simboliche che sperimentano la tensione insostenibile di una perpetua instabilità. Ma all’origine della poetica di B. non ci sono soltanto l’esistenzialismo e il surrealismo: ci sono pure grandi esperienze letterarie del nostro secolo (Kafka, Artaud, Borges), nonché quella di Mallarmé. Anche la saggistica di B. rivela il segno di questi autori-guida. E anche se talvolta B. ha spinto la propria ansia di sperimentazione stilistica fino alla provocazione e all’oscurità, gli va comunque riconosciuta una robusta volontà di esplorare le zone più misteriose dell’espressione letteraria e della personalità di quanti si dedicano all’arte. Tra le sue opere narrative: Thomas l’obscur (1941 e 1950); Aminabad (1942); Le Très-Haut (1948); L’arrêt de mort (1948); Le dernier mot (1949-50); Au moment voulu (1951); Le dernier homme (1957); L’attentel’oubli (1962). Della sua opera di saggista, critico e teorico della letteratura, si ricordano: Comment la littérature est-elle possible? (1942); Faux-pas (1943); La part du feu (1949); Lautréamont et Sade (1949); L’espace littéraire (1955); Le livre à venir (1959); L’entretien infini (1969); L’amitié (1971); L’écriture du désastre (1980); La Communauté inavouable (1984); Une voix venue d’ailleurs (2000).

Biografia – dal Dizionario Biografico Treccani:

https://www.treccani.it/enciclopedia/elenco-opere/Dizionario_Biografico

lavora in biblioteca. Terminati gli studi in Giurisprudenza e in Teologia ha continuato ad approfondire i contenuti di alcune correnti spirituali d’oriente e d’occidente, ampliando, allo stesso tempo, la sua ricerca poetica. Nel corso degli ultimi anni suoi contributi, sulla poesia e la parola, sono stati pubblicati da Fara Editore e dalle Edizioni CFR. É stato condirettore della collana di scrittura, musica e immagine “La pupilla di Baudelaire” della casa editrice Le loup des steppes. In poesia ha pubblicato Legni (Ladolfi Editore, 2014 - Premio “Oreste Pelagatti” 2015), il libro d'arte Borgo San Giovanni (Fiori di Torchio, Seregn de la memoria, 2018). Al di qua di noi (Arcipelago itaca Edizioni, 2023) è la sua ultima raccolta.

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