
Anna De Simone – Case di poeti. Luoghi dell’anima
Uno splendido lavoro questo di Anna De Simone, un percorso memoriale (un “catasto della memoria”) ricco di poesia e illuminato da un pensiero immaginale che impregna ogni pagina.
Un’“avventura spirituale di versi, immagini, commenti” – scrive Eraldo Affinati nella sua prefazione al libro.
La stesura del testo, ricco di passaggi e note critiche, ha richiesto un impegno di molti anni e quindi una penna sensibilissima, unita a uno sguardo profondo, quello della De Simone, appunto, davvero capace di immergersi, mediante una poetica dei luoghi, nei misteri del cuore. Nei luoghi dell’anima.
Questi i poeti (più di sessanta) di cui si parla nel libro:
Orazio, Giovanni Pascoli, Costantino Kavafis, Gabriele d’Annunzio, Virgilio Giotti, Giuseppe Ungaretti, Anna achmatova, Biagio Marin, Eugenio Montale, Federico García Lorca, Jorge Luis Borges, Nazim Hikmet, Aurelio Arturo, Sandro Penna, Lalla Romano, Olav H. Hauge, Cesare Pavese, Attilio Bertolucci, Giorgio Caproni, Vittorio sereni, Mario Luzi, Alessandro Parronchi, Marcos Ana, Andrea Zanzotto, Elena Bono, Ruth Bidgood, Luciano Erba, Yves Bonnefoy, Wisława Szymborska, Angelo Maria Ripellino, Yehuda Amichai, Giovanni Giudici, Titos Patrikios, Franco Loi, Derek Walcott, Alda Merini, Tomas Tranströmer, Giuseppe Rosato, Giovanni Raboni, Paolo Bertolani, Bianca Dorato, Pietro Civitareale, Mario Graziano Parri, Raymond Carver, Iosif Brodskij, Luigi Bressan, Maurizio Cucchi, Vivian Lamarque, Ida Vallerugo, Remigio Bertolino, Nino de Vita, Beppe Salvia, Alessandro Fo, Mario Benedetti, Claudio Damiani, Gian Mario Villalta, Antonella Anedda, Marco Munaro, Salvo Basso, Azzurra D’Agostino, Pierluigi Cappello, Ghiannis Ritsos.
Anna De Simone, Case di poeti (Mauro Pagliai Editore – Edizione Polistampa 2012)
PREFAZIONE
di Eraldo affinati
Cos’hanno di tanto speciale le case dei poeti? Perché saremmo pronti a dare chissà cosa pur di evitare che gli Evergreens, dove Emily Dickinson lasciò risplendere il suo spirito come un dio selvaggio, si trasformino nel prossimo millennio in quello che oggi rappresentano i bastioni di stonehenge, cioè un enigma sul quale storici e archeologi ancora si affannano a discutere?
Perché vorremmo scongiurare, con tutte le nostre forze, il pericolo che la stanzetta di Villa Ferrigni, alle falde del Vesuvio, al cui tavolino Giacomo Leopardi compose i supremi versi della Ginestra, sia definitivamente smantellata dall’incuria e dall’indifferenza collettive?
Forse una risposta a queste domande è presente proprio nel grande recanatese: la speranza che la natura conservi ciò che distrugge, sebbene illusoria, ci consente di vivere. Così crediamo che nell’appartamento di Rue Lepsius, 10, ad Alessandria d’Egitto, magari di notte, quando non ci sono turisti né ribelli, si possano ancora ascoltare le voci dei morti, i medesimi che erano stati
capaci di parlare dentro i sogni di Costantino Kavafis; o che nelle terrazze arrugginite di Via Bigli, 11, dimora milanese di Eugenio montale, in certi pomeriggi assolati d’agosto, spunti perfino la sagoma elegante e fragile di Esterina. In realtà sappiamo fin troppo bene che, se ciò accadesse, sarebbe il frutto della nostra volontà tesa a un impossibile recupero.
E se invece la poesia avesse un corpo che noi potessimo toccare, come facciamo quando passiamo la mano sulle tre scrivanie di Giovanni Pascoli, a Castelvecchio di Barga? Chissà, magari la città fantasma inventata da Iosif Brodskij esiste davvero e un ragazzo dalla sensibilità superiore alla media potrebbe ritrovarla fra una vecchia ringhiera veneziana e un ponte sospeso nel ghiaccio pietroburghese. Un altro sarebbe capace di partire per gli stati Uniti all’unico scopo di raggiungere la Sky House dove Raymond Carver trascorse i suoi ultimi anni, consumato dalla nostalgia per i mondi che aveva saputo creare, come un personaggio dello scrittore da lui più amato, anton Čechov.
Bisogna essere disponibili all’avventura spirituale per apprezzare il libro di versi, fotografie e commenti che avete scelto: Anna De Simone l’ha messo insieme con pazienza e lungimiranza, caparbietà e dolcezza, nel corso dei suoi incontri reali e fantastici in giro per il mondo. Grazie a lei, attenta anche alle ferite indelebili che gli uomini del ventesimo secolo hanno inferto a se stessi e alle generazioni venute dopo di loro, sfogliando le pagine che seguono possiamo entrare in un dedalo di amicizie, affetti, desideri, rimorsi, inquietudini, angosce, presenze e assenze, saldi e riscontri, esperienze perdute e recuperate, impegni presi e mancati.
Alla fine avremo capito ciò che conta: nella “corrispondenza d’amorosi sensi”, dove le ragioni della vita s’intrecciano a quelle dell’arte, la letteratura esce dalle bacheche e si fa carne viva, scende dai busti di gesso e parla con noi.
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INTRODUZIONE
di Anna de Simone
estratto da pp. 11-15
La vita era «un esistere lento, un impasto opaco senza disegno», leggiamo in Eschilo, quando gli uomini «non sapevano case – trame di cotti mattoni – inondate di sole, né il mestiere del legno; l’alloggio era un buco sotterra – come formiche sul filo del vento – nel seno di grotte cieche di sole».
“Sapere” le case. Sapere le case dei poeti. Presto o tardi, chi ha confidenza con la poesia mette insieme una lunga teoria di finestre, cortili, alberi, tetti, fumo di camini, gridi di passeri, stanze dove è passata la vita. E un giorno scopre di aver registrato, nel catasto della memoria, case situate ai quattro angoli del pianeta, “costruite” con i mattoni di tante lingue diverse. Quelle di mattoni veri, sontuose o modeste, ci raccontano molte cose su chi le ha abitate e ci restano dentro, ma non possiedono né la forza né l’incanto delle immagini affidate ai versi. Ache se Palazzo Leopardi a Recanati regala ogni volta emozioni indimenticabili.
Anche se in via Broccaindosso, a Bologna, è difficile resistere al desiderio un po’ infantile di gettare uno sguardo sull’orto “muto e solingo” del melograno di Pianto antico. E prima o dopo, molti di noi sono andati a Gardone spinti dalla curiosità di visitare quel luogo fiabesco, fastoso come una reggia, che è il Vittoriale degli italiani, non una casa, ma un monumento innalzato all’arte e a se stesso da Gabriele D’Annunzio. Le reazioni possono essere molteplici. Certo è che a noi dice tante più cose, sull’uomo, sulla verità dei suoi primi anni, sulla sua vita, la vecchia casa di Pescara, dove l’“avventura” dell’“imaginifico” ebbe inizio. E lo sentiamo più vicino, più “umano”, proprio in quella pagina da antologia del Notturno dove ricorda di essere tornato nella sua città per visitare la madre morente, e mentre attraversa le stanze di quella dimora, a un certo momento viene quasi sopraffatto dai ricordi («…Ho vissuto tant’anni nella dimenticanza di queste cose; e queste cose possono rivivere così terribilmente in me? nella terza stanza c’è il mio letto bianco; c’è il vecchio armadio dipinto, con i suoi specchi appannati e maculati; c’è l’inginocchiatoio di noce dove mi sedevo in corruccio e rimanevo ammutolito, con una ostinazione selvaggia, per non confessare che mi sentivo male…»).
Il viaggio continua. a Roma viene voglia di ritrovare la mimosa che in febbraio si affacciava a una finestra della casa di Ungaretti per festeggiarne il compleanno («ogni anno, mentre scopro che Febbraio | è sensitivo e, per pudore, torbido, | con minuto fiorire, gialla irrompe | la mimosa…»).a quale lettore di Derek Walcott non piacerebbe poi vedere anche solo per pochi istanti il suo studio-atelier di legno, sul promontorio di Becune Point, all’estremo nord di Saint Lucia, «mentre luci arancioni sbocciano nelle baracche sulmorne, | e lungo i portici del porto buio», nel mare dei Caraibi?
Impossibile dire quali e quante suggestioni esercitino su di noi le case della poesia a colpirci in esse è un non so che di inafferrabile che se ne sta ben nascosto dietro una siepe, tra i vasi di fiori di un patio, in una Venezia invernale tanto cara a Iosif Brodskij; nell’antica dimora di Fanna («con la immensa magnolia nel giardino e il pozzo sotto il glicine e la tartaruga nella corazza d’avorio e ebano»), luogo sacro di un Friuli perduto assieme all’infanzia e a una nonna veneziana molto severa e molto amata da Mario Graziano Parri o nella “casa di vento” evocata da Luigi Bressan, dentro un vicolo, negli occhi di un bambino, nel villaggio sperduto della Norvegia in cui Olav H. Hauge coltivava mele («Ricordo le capanne di foglie | che costruivamo | quando eravamo piccoli: | infilarcisi dentro, sedersi | e ascoltare la pioggia»).
Oppure nella “casa blu” del poeta svedese Tomas Tranströmer: «È una notte di sole splendente. Sono nel fitto del bosco e guardo lontano verso la mia casa dalle pareti azzurrine. Come se fossi appena morto e vedessi la casa in una luce nuova».
Casa per Lalla Romano è persino l’aria che respira quando torna a rivedere il suo paese d’origine, Demonte, a cercare la propria infanzia perduta nella “penombra” che tutti “abbiamo attraversato”.
Casa per il suo antico compagno d’università, Cesare Pavese, non è un luogo, ma una persona che sappia amarci («non è giusto restare sulla piazza deserta. | Ci sarà certamente quella donna per strada | che, pregata, vorrebbe dar mano alla casa»).
Casa per Alessandro Fo è il ricordo di un sogno sognato tanto tempo fa su un terrazzo di Roma affacciato sui voli dei passeri e su «grida di bambini | all’uscita da scuola».
Mi vengono in mente le dolorose riflessioni lette in un racconto autobiografico della poetessa Alida Airaghi, Scrivo da una casa che sto per lasciare: «sto per lasciare Zurigo, città che ho amato più di ogni altra…da questa stanza, un’altra donna, un altro uomo, guarderanno appena fatto giorno i primi tram fermarsi sotto le finestre, raccogliere i pochi passeggeri, ripartire indifferenti. Ma non saranno me. Sto per lasciare questo appartamento. Regalerò le mie piante, la mia dracena… Porterò via questo tavolo, il pianoforte, tre quadri. Come quando se ne va una persona a cui si è voluto molto bene, allora bisogna decidersi a buttare le sue cose, a eliminare i suoi vestiti…» (Fine dicembre, Le onde, siena 2010).
Che dire poi della «Casa d’altri» di cui ci parla lo scrittore Silvio D’Arzo in un racconto perfetto?
Per il poeta colombiano Aurelio Arturo, casa è persino il vento che soffia su memorie infantili abitate dalle favole strane della sua tata nera («Una parola canta nel mio cuore, sussurrante | foglia verde che cade senza fine», Canzone della notte silenziosa).
In un contesto mediterraneo, nino de Vita ci fa percepire quasi fisicamente il senso di rovina trasmesso da una casa solitaria su un’altura in Sicilia, rifugio di insetti e di uccelli notturni.
E nei suoi racconti in versi rappresenta impietosamente lo stato di abbandono in cui vivono persone poverissime e sole. Come la zia Vincenza. Assimilabile, nel nostro immaginario, all’anziana donna che compare in una lirica di Angelo Maria Ripellino: da quando anche «l’ultimo figlio | se n’è andato oltre frontiera», non sa più che fare nella sua Praga: «che cosa le resta la sera, | quando le carrozze dei treni languiscono vuote | e il circo vicino ha spento le sue piccole lampade? | Che cosa le resta la sera, se non appoggiarsi | sul davanzale coperto di neve, e singhiozzare e piangere […] nel triste scantinato in cui vive, | sommersa da bucce, rifiuti, ciarpame, brandelli» (Ora che anche l ’ultimo figlio).
Per Wisława Szymborska, è l’amore la chiave capace di aprire una casa, di spalancare le finestre del mondo intero. E nei versi di Yves Bonnefoy realtà, sogni, fantasie, ricordi di scuola si mischiano in un poema della memoria di meravigliosa suggestione («Era notte, alberi si affollavano | da ogni parte attorno alla nostra porta, | Ero solo sulla soglia nel vento freddo […] entro spaventato| in una sala piena di banchi, | vedi,mi dicono, fu la tua classe, | vedi sui muri le tue prime immagini, | vedi, è l’albero, vedi, qui è il cane che guaisce, | e quella carta geografica alla parete | gialla, quello scolorirsi dei nomi e delle forme, | quel disfarsi delle montagne, dei fiumi, | attraverso il biancore che raggela il linguaggio, | vedi, fu il tuo solo libro…», da La casa natale, iii, v).
Gianmario Villalta, invece, prima di sprofondare nel buio del sonno, la sua casa “quasi finita” la ricostruisce con l’immaginazione («E mi inabisso | con i visi e le mani che si pensano, | proprio quando è il momento di riunire | tutti in cucina…»). Tutto passato prima ancora che qualcosa cominci. Itinerari del genere non si trovano sulle mappe, ma possono suggerirli le poesie che amiamo, le sole capaci di creare le atmosfere e gli sfondi entro cui si dispongono naturalmente le case dei poeti, dove ho cercato di entrare in punta di piedi, per dare vita, seguendo un suggerimento di Claudio Damiani, a un mio “diario personale di immagini”, incompiuto e qua e là forse incoerente come i sogni, ma come i sogni fitto di sensazioni tenute saldamente insieme dalle “mani del ricordo”. […]
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Anna De Simone, Case di poeti (Mauro Pagliai Editore – Edizione Polistampa 2012)
Anna De Simone è nata da genitori siciliani a Milano, dove vive e vi ha compiuto gli studi, fino alla laurea in Lettere. Ha insegnato Italiano e Latino al liceo classico “Carducci”. Collabora con recensioni, studi e servizi su poeti contemporanei, alle riviste letterarie “Poesia”, “Il Caffè Michelangiolo“, “Semicerchio”, “Tratti”, “Letteratura e dialetti”, “Studi Mariniani”, “la Battana”, “Periferie”.
foto di Lecreusois su pixabay
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