La Bhagavadgītā – Il cuore e la liberazione. Un canto
La Bhagavadgītā (Il canto del Beato) è un poema breve (settecento versi) che raccoglie il cuore degli insegnamenti tramandati dalla scuola di Bhagavata. Fu redatto tra il III sec a. C. e il I sec d.C.. Il canto fa parte della maggior epica Indiana, il Mahabharata (VI, 24-42). L’argomento principale è la guerra fra i due rami dei discendenti di Bharata (i cento Kaurava), ed i loro cugini (i cinque Pandava).
Il testo è una delle espressioni più alte della speculazione religiosa indiana, ispirato dai principi filosofici dell’India induistica, buddhistica e giainica. Quindi al centro vi è la condizione umana intesa come essenzialmente dolorosa, separata, lacerata, segnata dalla malattia e dalla morte. Il dolore si ripresenta in ogni vita, e l’uomo è un essere destinato a continuare.
Da ogni azione [cosciente] un frutto – buono o cattivo, piacevole o doloroso, a seconda della moralità dell’atto. Questa necessità è governata dalla legge del karman, un automatismo interno e naturale.
Tutte le creature vi sono sottoposte fino all’esaurirsi del processo. « Né nell’immensità degli spazi atmosferici (dice il Buddha), né negli abissi dei mari, né se ti rintani nei crepacci delle montagne, in nessuna parte della terra troverai un luogo dove tu possa sfuggire al frutto delle tue azioni ».
Questo scorrere (samsāra) di esistenze è sentito universalmente come una necessità dolorosa. Da qui il senso continuo per trovare una via per sfuggire, mediante la liberazione.
Il Canto del beato (la Bhagavadgītā) (UTET 1976). A cura di Raniero Gnoli [da Lui dedicata al suo maestro Giuseppe Tucci]. Edizione accompagnata dal commento di Abhinavagupta (950 circa – 1020 circa). Traduzione dall’originale sanscrito [recensione Kashmira]
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STANZE PRELIMINARI
pp. 40-41
di Abhinavagupta
Gloria a Siva, a colui che discaccia il male, luogo di tutti i raggi del conoscere, a Siva che essenziato dalla ruota delle molteplici forme di esistenza che si diffondono splendenti in ogni dove, ora si differenzia in mille aspetti diversi tra loro e diventa così oggetto conoscibile, ora, grazie ad una concentrazione diretta verso sé solo, recupera la non differenziazione.
Tra i fini dell’’uomo, quello che domina in quest’opera composta dal saggio Dvaipdyana e costituita da centomila stanze, è palesemente la liberazione. Gli altri fini, quali la pieta, ecc., figurano in essa al solo scopo di nutrire il primo.
La cosiddetta liberazione, smisurata com’è, st rivela in breve come un riposo nel Beato, nel Supremo Signore, sempre splendente, privo d’ogni desiderio, dove sono accolte, di là da ogni distinzione, tutte le cose, la cui pura natura è, tra l’altro, essenziata dalle facolta di tutto conoscere e di lutto agire.
Anche se qui la liberazione è stata celebrata anche in altre parti, tuttavia sono i canti del Beato quelli che meglio ce la fanno ottenere.
Anche se essi sono stati copiosamente commentati da altri che ci hanno preceduto, tuttavia questo mio sforzo, con cui mi propongo di illustrare il loro senso riposto, è del tutto lecito.
Questo sunto del significato del Canto del Beato è stato composto da me Abhinavagupta, basandomi insieme sull’insegnamento trasmessomi da Bhatta Induràja e su una lunga considerazione personale.
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Il Canto del beato (la Bhagavadgītā) (UTET 1976). A cura di Raniero Gnoli
Buddha – foto di Patrizio Yoga su pixabay