Bice Mortara Garavelli su Primo Levi. Silenzi d’autore. Di fronte all’indicibile
È molto più di un excursus antologico questo libro di Mortara Garavelli. Di sicuro è un sussidio per una riflessione profonda sul silenzio. E anche se quello di cui si tratta è un tema inesauribile, comunque l’autrice riesce a illuminarlo, consapevole che tale stato è una dimensione interiore che va al di là del semplice “tacere”.
Nel procedere delle pagine, quindi, ci si avvicina alla dimensione più sapienziale del silenzio, ma l’impostazione resta assolutamente laica. Queste le due citazioni presenti nell’incipit che introduce il volume: “c’è un momento per tacere e un momento per parlare” (Abate Dinouart); “La più vera ragione è di chi tace” (Eugenio Montale). Si tratta quindi di un “tema di indubbio potere attrattivo” e la forza dei passi riportati infatti è assolutamente esemplare.
Prende corpo, così, “una sorta di censimento di fatti illustrati”[…] una rassegna (provvisoria, nella sua inevitabile incompletezza) di forme silenziarie”. Il breve estratto che segue è ripreso dal terzo capitolo dedicato a Primo Levi. Tratta quindi del silenzio assoluto e dell’indicibilità dell’abisso umano, connesso alla shoah e alla memoria. All’impossibilità dell’oblio.
Bice Mortara Garavelli, Silenzi d’autore (Laterza, 2015)
Di fronte all’indicibile
estratti da pp. 95-100
Auschwitz
In primo piano si pone il racconto di Primo Levi che, superstite all’inferno di Auschwitz, seppe narrare incomparabilmente le atrocità di cui fu testimone e vittima. La loro tragica verità è sintetizzata in queste espressioni altamente rivelatrici: Allora per la prima volta ci siamo accorti che la nostra lingua manca di parole per esprimere questa offesa, la demolizione di un uomo. In un attimo, con intuizione quasi profetica, la realtà ci si è rivelata: siamo arrivati al fondo. Più giù di così non si può andare: condizione umana più misera non c’è, e non è pensabile (pp. 41-42).
Nei pochi stralci qui presentati riguardo al tema del silenzio si notano semplici qualificazioni: Le loro donne furono le prime fra tutte a sbrigare i preparativi per il viaggio, silenziose e rapide, affinché avanzasse il tempo per il lutto (p. 18) e preterizioni di grande efficacia, come le seguenti: Molte cose furono allora fra noi dette e fatte; ma di queste è bene che non resti memoria (p. 20). Accanto a me, serrata come me fra corpo e corpo, era stata per tutto il viaggio una donna. Ci conoscevamo da molti anni, e la sventura ci aveva colti insieme, ma poco sapevamo l’uno dell’altra. Ci dicemmo allora, nell’ora della decisione, cose che non si dicono fra i vivi. Ci salutammo, e fu breve; ciascuno salutò nell’altro la vita (p. 26).
Tragico rilievo hanno le pagine in cui è rievocato il viaggio dei deportati, in treno, verso il campo di sterminio: Pochi sono gli uomini che sanno andare a morte con dignità e spesso non quelli che ti aspetteresti. Pochi sanno tacere e rispettare il silenzio altrui. Il nostro sonno inquieto era interrotto sovente da liti rumorose e futili, da imprecazioni, da calci e pugni vibrati alla cieca come difesa contro qualche contatto molesto e inevitabile. Allora qualcuno accendeva la lugubre fiammella di una candela, e rivelava, prono sul pavimento, un brulichio fosco, una materia umana confusa e continua, torpida e dolorosa, sollevata qua e là da convulsioni improvvise subito spente dalla stanchezza (p. 25).
Alla sera del quarto giorno il freddo si fece intenso: il treno percorreva interminabili pinete nere, salendo in modo percettibile. La neve era alta. […] Nessuno tentava più, durante le soste, di comunicare col mondo esterno: ci sentivamo ormai “dall’altra parte”. Vi fu una lunga sosta in aperta campagna, poi la marcia riprese con estrema lentezza, e il convoglio si arrestò definitivamente, a notte alta, in mezzo a una pianura buia e silenziosa (p. 26).
Ed ecco, espressi con incisiva drammaticità, l’arrivo e le condizioni degli infelici, in una situazione irreale «sconcertante e disarmante»: Venne a un tratto lo scioglimento. La portiera fu aperta con fragore, il buio echeggiò di ordini stranieri, e di quei barbarici latrati dei tedeschi quando comandano, che sembrano dar vento a una rabbia vecchia di secoli. Ci apparve una vasta banchina illuminata da riflettori. Poco oltre, una fila di autocarri. Poi tutto tacque di nuovo. Qualcuno tradusse: bisognava scendere coi bagagli, e depositare questi lungo il treno. In un momento la banchina fu brulicante di ombre: ma avevamo paura di rompere quel silenzio, tutti si affaccendavano intorno ai bagagli, si cercavano, si chiamavano l’un l’altro, ma timidamente, a mezza voce. […] Tutto era silenzioso come in un acquario, e come in certe scene di sogni. […] Era sconcertante e disarmante (pp. 27-29).
Lo sconcerto si manifesta, all’arrivo nel campo di sterminio, con un desolato ammutolire che diventerà consueto di fronte all’irrazionalità delle condizioni a cui saranno sottoposti i votati alla morte: Noi ci guardavamo senza parola. Tutto era incomprensibile e folle (p. 31). A sera si è aperta la porta della baracca, una voce ha gridato – Achtung! – e ogni rumore si è spento e si è sentito un silenzio di piombo (pp. 88-89).
Al silenzio dei deportati, destinati dai carnefici a un progressivo abbrutimento, fa da sfondo lo squallore dell’ambiente, ove tacciono sentimenti reciproci che non siano la paura e l’odio: I giorni si somigliano tutti, e non è facile contarli. Da non so quanti giorni facciamo la spola, a coppie, dalla ferrovia al magazzino: un centinaio di metri di suolo in disgelo. Avanti sotto il carico, indietro colle braccia pendenti lungo i fianchi, senza parlare […] Intorno, tutto ci è nemico. […] E sulle impalcature, sui treni in manovra, nelle strade, negli scavi, negli uffici, uomini e uomini, schiavi e padroni, i padroni schiavi essi stessi; la paura muove gli uni e l’odio gli altri, ogni altra forza tace (p. 70).
Oscurità e silenzio si combinano nella tetra atmosfera del campo: Anche il rancio serale viene distribuito nei letti; dopo di che, alle ventuno, tutte le luci si spengono, tranne la lampadina velata della guardia di notte, ed è il silenzio (p. 84).
Preziose le considerazioni disseminate, nel racconto dei fatti, sulla natura e sui comportamenti umani. Il senso di desolazione tragica si concentra, oltre che nelle constatazioni dell’impotenza di fronte alle ingiustizie disumane e della schiavitù, nel mutismo coatto rispetto alla fatica dolorosa, nello spegnimento dell’anima prima ancora del morire come esseri senza nome. Disperata conclusione, la temuta impossibilità di testimoniare al mondo come e fino a che punto, ad Auschwitz, l’uomo ebbe il coraggio di ridurre l’uomo: Noi abbiamo viaggiato fin qui nei vagoni piombati; noi abbiamo visto partire verso il niente le nostre donne e i nostri bambini; noi fatti schiavi abbiamo marciato cento volte alla fatica muta, spenti nell’anima prima che dalla morte anonima. Noi non ritorneremo. Nessuno deve uscire di qui, che potrebbe portare al mondo, insieme col segno impresso nella carne, la mala novella di quanto, ad Auschwitz, è bastato animo all’uomo di fare dell’uomo (pp. 93-94).
Molto più complesso e profondo di quanto possa apparire dallo scarno resoconto che ne abbiamo dato qui è l’insieme delle valutazioni di Levi riguardo ai fatti e agli atteggiamenti di chi ne è stato responsabile. Ne isoliamo solo un esempio, notando in soprappiù il modo di dire ‘riduzione al silenzio’, che nel suo contesto sembra perdere la convenzionalità del significato fissata dall’uso per riacquistare la pienezza del senso letterale: Noi non crediamo […] che l’uomo sia fondamentalmente brutale, egoista e stolto come si comporta quando ogni sovrastruttura civile sia tolta […]. Noi pensiamo piuttosto che, quanto a questo, null’altro si può concludere, se non che di fronte al bisogno e al disagio fisico assillanti, molte consuetudini e molti istinti sociali sono ridotti al silenzio (pp. 145-146).
Il persistere di una tale deminutio è ribadito poco più avanti dalla denuncia di una generale spogliazione di ciò che è più sublime nell’uomo: Sono loro, i Muselmänner, i sommersi, il nerbo del campo; loro, la massa anonima, continuamente rinnovata e sempre identica, dei non-uomini che marciano e faticano in silenzio, spenta in loro la scintilla divina, già troppo vuoti per soffrire veramente (p. 150).
A cui si aggiunge l’assuefazione «all’ira degli uomini e delle cose», da parte delle vittime trasformate in «gregge muto», come si legge nel racconto dei bombardamenti aerei iniziati nell’agosto del 1944 sull’Alta Slesia: A noi l’accesso ai rifugi corazzati era vietato. Quando la terra cominciava a tremare, ci trascinavamo, storditi e zoppicanti, […] fino alle vaste aree incolte, sordide e sterili, racchiuse nel recinto della Buna […]. Ad allarme finito, ritornavamo da ogni parte ai nostri posti, gregge muto innumerevole, assueto all’ira degli uomini e delle cose (p. 197).
Nell’ultimo capitolo, Storia di dieci giorni, i riferimenti al silenzio hanno coloriture tragiche. A cominciare dalla descrizione della Buna100, e del silenzio che la avvolge mentre intorno risuona il fragore delle artiglierie: La Buna dilaniata giace sotto la prima neve, silenziosa e rigida come uno smisurato cadavere (p. 225). E inoltre, chi può sapere che cosa accadrà quando i russi verranno? // Perché i russi verranno. Il suolo trema notte e giorno sotto i nostri piedi; nel vuoto silenzio della Buna il fragore sommesso e sordo delle artiglierie risuona ormai ininterrotto (p. 227).
Il clou della tragedia è rappresentato dall’agonia del deportato (Sómogyi). L’agonia comincia con «un silenzio aspro» che nei giorni successivi viene «sciolto» (si noti la potenza descrittiva del verbo, inusuale nella combinazione di cui è parte) «dal delirio»; una condizione ritratta con l’esattezza descrittiva, e poetica, che è una delle prerogative più qualificanti della prosa di Primo Levi. L’ultima, magistrale, pennellata di ambiente è «il grande silenzio» finale; il cui significato traspare, sul piano della retorica più fine, nell’aposiopesi «e tutti sapevano perché» riferita all’aumento del numero dei corvi: 25 gennaio. Fu la volta di Sómogyi. Era un chimico ungherese sulla cinquantina, magro, alto e taciturno. […] Fu preso da una febbre intensa. […] Finché conservò coscienza, rimase chiuso in un silenzio aspro. Ma a sera, e per tutta la notte, e per due giorni senza interruzione, il silenzio fu sciolto dal delirio. Seguendo un ultimo interminabile sogno di remissione e di schiavitù, prese a mormorare «Jawohl» ad ogni emissione di respiro; regolare e costante come una macchina, «Jawohl» ad ogni abbassarsi della povera rastrelliera delle costole, migliaia di volte, tanto da far venire voglia di scuoterlo, di soffocarlo, o che almeno cambiasse parola. Non ho mai capito come allora quanto sia laboriosa la morte di un uomo. Fuori ancora il grande silenzio. Il numero dei corvi era molto aumentato, e tutti sapevano perché. Solo a lunghi intervalli si risvegliava il dialogo dell’artiglieria (pp. 268-269).
Il 28 dicembre 1945, undici mesi dopo la liberazione, Primo Levi diede della prigionia un’esemplare rievocazione poetica dal titolo Buna101:
Piedi piagati e terra maledetta,
Lunga la schiera nei grigi mattini.
Fuma la Buna dai mille camini,
Un giorno come ogni giorno ci aspetta.
Terribili nell’alba le sirene:
«Voi moltitudine dai visi spenti,
Sull’orrore monotono del fango
È nato un altro giorno di dolore».
Compagno stanco ti vedo nel cuore,
Ti leggo gli occhi compagno dolente.
Hai dentro il petto freddo fame niente
Hai rotto dentro l’ultimo valore.
Compagno grigio fosti un uomo forte,
Una donna ti camminava al fianco.
Compagno vuoto che non hai più nome,
Un deserto che non hai più pianto,
Così povero che non hai più male,
Così stanco che non hai più spavento,
Uomo spento che fosti un uomo forte:
Se ancora ci trovassimo davanti
Lassù nel dolce mondo sotto il sole,
Con quale viso ci staremmo a fronte?
[…]
…
Bice Mortara Garavelli, Silenzi d’autore (Laterza, 2015)
auschwitz -foto di peter89 su pixabay
Bice Mortara Garavelli, linguista italiana (Montemagno, Asti, 1931 – Torino 2023). Dopo essersi laureata in Lettere classiche con B. Terracini, ha insegnato alle scuole medie e superiori prima di assumere la cattedra di Grammatica italiana all’Università di Torino. Accademica della Crusca e membro dell’Accademia delle Scienze di Torino, durante la sua carriera si è interessata di linguistica testuale, di stilistica linguistica e letteraria e di retorica.
da Enciclopedia Treccani online
la biografia completa Qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/bice-mortara-garavelli/
Primo Levi, scrittore (Torino 1919 – ivi 1987). Ha offerto una delle più alte testimonianze sulla tragica realtà dei lager in Se questo è un uomo (1947), dove ha descritto la sua esperienza di ebreo deportato ad Auschwitz; la sua successiva produzione ha indagato il mondo della produzione industriale, volgendosi poi nuovamente al tema delle persecuzioni razziali (Se non ora, quando?, 1982; I sommersi e i salvati, 1986).
da Enciclopedia Treccani online
la biografia completa Qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/primo-levi/