Giovanni Pozzi – La parola dipinta. Il carme figurato. L’iconismo della scrittura, tra esibizione e occultamento
La parola dipinta di Giovanni Pozzi è un libro straordinario, essendo un trattato ricco di riferimenti e conoscenze tutte orientate allo studio del carme figurato – un genere di poesia davvero singolare – “un’entità composta da un messaggio linguistico e da una formazione iconica, non giustapposti, ma conviventi in una specie di ipostasi”.
In questo volume, quindi, Pozzi analizza la natura di questa affascinante tipologia di carme, classificandone le forme, come in un catalogo, inventariandone quindi anche i relativi temi.
La parola qui appare debole e bisognosa di sostegno, oltre sé, tracciata o dipinta – come sospesa su un ineffabile abisso, tesa al di là di ogni supporto. Così tutte le vicende vengono tracciate qui, da Giovanni Pozzi, con sintesi e rigore, come in un estremo tentativo di dare ordine, mediante una solida grammatica, a questa scrittura. Nel tentativo si superare “l’incongruo magazzino del caos”.
Giovanni Pozzi, La parola dipinta (Adelphi, 2002)
dalla presentazione
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Questo libro può essere considerato la prima trattazione organica del tema della poesia figurata in tutte le sue molteplici accezioni, che vanno dai technopaegnia alessandrini ai calligrammi di Apollinaire, poi ripresi e sviluppati dalle avanguardie.
Mentre gli studi precedenti si erano spesso appagati di un’analisi innanzitutto visiva di questa forma di poesia, Pozzi mira a risalire all’origine di quell’impulso formale, qui individuata nella tensione dell’espressione linguistica quando essa si sottomette a un regime che le è estraneo, quello dell’espressione iconica. Questa tensione non è presente solo negli artifici più noti – quali il calligramma, l’anagramma e l’acrostico -, ma in numerosi altri testi dove il valore iconico è per così dire occultato. È il disvelamento di queste immagini segrete viene qui condotto da Pozzi con appassionante perizia.
Alla prospettiva sincronica, che tende a illuminare le sottili questioni formali poste da questa specie della poesia, si accompagna – nella seconda parte dell’opera – una storia della poesia figurata in Italia dal Medioevo in avanti: vi si vedranno sfilare i grandi nomi di Boccaccio, Boiardo, Folengo, Colonna e una fòlla di autori sconosciuti, soprattutto cinquecenteschi e secenteschi, che spingono la poesia figurata a estremi di virtuosismo e di eleganza.
Molti di questi materiali vengono qui sottratti per la prima volta al sonno delle biblioteche, portando alla luce immagini delicate, sorprendenti. Un senso di vertigine è la cifra di queste invenzioni, oscillanti fra l’esaltazione mistica e la perversione contaminatrice.
La scrittura, ribellandosi alla sua funzione di rappresentanza linguistica, tende a diventare, da ancella della lingua, sua arrogante despota: «una storia della scrittura come regno dell’eccesso vedrebbe figurare il nostro genere fra i più inquietanti» annota Pozzi. L’evoluzione formale della poesia figurata si intreccia così a quel radicale spostamento dell’asse intellettuale che si manifesta all’inizio dell’età moderna. I carmi figurati, che negli esempi medievali si aggiungevano al Liber mundi come un’ulteriore pagina di lode cosmica, tendono sempre più a diventare una celebrazione del disordine e del sovvertimento, segnali dell’assenza della divinità dal mondo, annuncio di un irredimibile caos.
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estratti dall’introduzione pp. 11-13
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Le cose di cui parlerò, prima ancora che ordinare e definire, si lasciano difficilmente riunire, non perché sconosciute una per una, ma perché finora trascurate nella loro natura di composito iconico-linguistico, che ne fa un genere a sé nell’ambito sia della letteratura che della grafica.
Gli intenditori, andando oltre il confine stretto della letteratura e dell’arte, le riportano talora ad attività umane più generali, se non sempre più impegnate, come il gioco, la curiosità, l’artificio, la magia, la mistica. Non senza ragione, ma con molti inconvenienti.
Una delle caratteristiche fondamentali del gioco è la virtualità combinatoria, di cui l’alfabeto, che è il materiale proprio del carme figurato, è fornito in alto grado. Oltre questa coincidenza di superficie, gioco e arte s’incontrano in motivazioni più profonde, che vanno dalla radice dell’impulso all’intenzione dell’atto, in ambedue l’una immotivata, l’altra diretta alla rappresentazione di sé medesima. Anche la logica comportamentale di fronte alla legge è sensibilmente uguale, poiché ambedue si sviluppano secondo delle leggi, ma ambedue tendono a sfuggirvi, non già con l’infrazione, come predica per l’arte la teoria stilistica, ma sfruttando oltre l’uso corrente le virtualità combinatorie del sistema istituito.
L’artista sommo non è tanto colui che infrange la regola quanto colui che varia la consuetudine, così come il buon giocatore non è il baro, ma l’inventore di soluzioni inconsuete nello sviluppo dell’azione ludica. Gioco e pratica dell’arte s’incontrano spesso anche sul terreno sociale, dove se l’una a volte viene inclusa in quelle salutari disoccupazioni dell’uomo che sono i passatempi, l’altro si veste delle grazie formali che son proprie della prima. Gioco e arte si ritrovano unite nelle più oscure zone dell’affettività e dell’irrazionale, dove quello che è detto per antonomasia gioco dello spirito si appaia alla preghiera, allo scongiuro, all’epifania dell’eros. E poco importa se le motivazioni più alte sembrano spesso assenti dai nostri prodotti, i quali, nella classifica dei giochi, si ascrivono tutt’al più alla non brillante categoria dei giochi di pazienza, come li definisce il triste ossimoro; il diritto di appartenenza non ne viene per questo intaccato.
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Solo in apparenza più specifico è il riporto al mondo della magia. Qui bisogna anzitutto distinguere la presenza del gioco linguistico nell’esercizio magico vero e proprio e il ricorso a motivazioni di origine magica da parte di produttori di giochi puramente letterari, per nobilitare mediante riferimenti esoterici un atto che potrebbe altrimenti esser ritenuto mera curiosità o bizzarria. Le forme esterne dell’artificio magico e di quello poetico figurativo spesso coincidono: acrostici, anagrammi, forme delle lettere dell’alfabeto, palindromi e perfino calligrammi sono assunti anche dalle pratiche magiche (Liede, II, 267-78); i due usi hanno tuttavia qualità così diverse che non è pensabile adottare, nonostante le forme, un criterio comune di definizione.
Quanto alle motivazioni esoteriche che spesso accompagnano le prove letterarie, raramente si rivolgono alla sfera magica vera e propria, facendo piuttosto capo a filoni culturali che si possono d’epoca in epoca ben definire: come per esempio il pitagorismo, il neoplatonismo, mescolati entrambi con la cabala ebraica in epoca rinascimentale, o in epoca moderna un simbolismo esasperato che si riveste pure di nomi esoterici (come l’orfismo di Apollinaire) o di subdoli neologismi (come dadaismo, sincretismo, lettrismo ecc.). In tutti questi casi è improprio parlare di magia. È improprio anche parlare di mistica, almeno nell’accezione stretta che qualifica sul piano del discorso il tentativo di comunicare l’esperienza soprannaturale dell’anima cui Dio si rivela.
Se per mistico s’intende il sacro in genere, si designa una coincidenza curiosa certo e degna di attenzione tra una determinata forma e un determinato contenuto; ma non il criterio classificatorio di uno specifico modo espressivo. Se poi mistico assume il senso più generico di occulto ed iniziatico, allora designerà in forma impropria e, scusandomi del bisticcio, mistificatoria, la crisi del linguaggio che investe le ragioni stesse del parlare in determinate forme un determinato contenuto (il contenuto sacro): crisi nella quale i nostri carmi figurati non sarebbero che un caso, probabilmente fra i più marginali.
Tutti quanti i criteri ora elencati importano moltissimo per definire le ragioni antropologiche che spingono ad usi linguistici così difformi, nonché a spiegare gli opposti atteggiamenti di totale rigetto o di sviscerata ammirazione cui il genere vien sottoposto a seconda del variare dei gusti o degli atteggiamenti mentali di fronte al razionale ed all’immaginario; ma non costituiscono un termine adatto per definire lo specifico di quell’entità che chiamiamo carme figurato. […]
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Giovanni Pozzi, La parola dipinta (Adelphi, 2002)
Giovanni Pozzi, filologo (Locarno 1923 – Lugano 2002), minore cappuccino; allievo di G. Billanovich e G. Contini all’univ. di Friburgo, dove insegnò letteratura italiana dal 1960 al 1988. Oltre a saggi di storiografia e critica letteraria (Saggio sullo stile dell’oratoria sacra nel Seicento, 1954; La rosa in mano al professore, 1974) e a studî su aspetti poco esplorati del linguaggio poetico (La parola dipinta, 1981; Poesia per gioco: prontuario di figure artificiose, 1984), si devono al suo magistero filologico ed erudito le edizioni critiche dell’Hypnerotomachia Poliphili di F. Colonna (1964, in collab. con L. A. Ciapponi) e dell’Adone di G. Marino (1976) […]
da Enciclopedia Treccani online
la biografia completa Qui: https://www.treccani.it/enciclopedia/giovanni-pozzi_%28Dizionario-Biografico%29